Città e civiltà
di Alessandro Bosi
Appartenenza e distanza
La nostra appartenenza di umani all’ordine dei viventi è altrettanto evidente quanto controversa. Evidente perché, dei viventi, condividiamo alcuni requisiti giudicati essenziali, controversa perché il nostro modo di distinguercene è motivo, da sempre, di riflessione e discussione.
Come tutti i viventi, siamo in grado di procurarci i modi per campare la vita, di riprodurci garantendo una durata alla nostra specie, di provvedere alla crescita dei cuccioli.
Queste, che sembra siano le caratteristiche attività che riconosciamo ai viventi, si direbbero scritte sull’acqua ogni volta che ci troviamo di fronte alla necessità di decidere sulla nascita o sulla morte di una persona. I nostri dilemmi in quelle drammatiche circostanze sono un indizio di quanto siano fragili le convinzioni che abbiamo su che cosa si debba intendere per ‘vivente’ e su che cosa cerchiamo oltre i suoi confini. È con angosciosa provvisorietà che ci iscriviamo tra i viventi. Ma potremmo forse dirci in un altro modo? Sarebbe troppo dire che, dei viventi, condividiamo la ‘cultura’?
Non sarebbe davvero troppo, se pensiamo a quale estensione abbiamo sottoposto il termine ‘cultura’ chiedendogli di comprendere le vette del pensiero più astratto e la quotidianità degli umani comportamenti. Perché mai ‘cultura’ non dovrebbe adattarsi a questo significato, così innocente e persino autoevidente? Che gli umani appartengano ai viventi e ne condividano la cultura è forse un modo di esprimersi così diverso dall’affermare che l’uomo è un animale, ciò che da sempre accettiamo senza riserve?
Non è qui il punto, infatti.
È piuttosto, nel distinguerci dai viventi che i pareri si dividono. Cos’abbiamo, che loro non abbiano o che, a un prossimo stadio evolutivo, elaborando potenzialità di cui già dispongono, non potrebbero rivelare?
Nondimeno, la nostra distinzione ci appare altrettanto evidente quanto la nostra appartenenza all’ordine dei viventi e ogni esitazione nel fondare la distinzione su un qualche assunto, non ci impedisce di acuirla nei comportamenti e nelle scelte che continuiamo a compiere. Fra queste, quella che più d’ogni altra ha segnato la nostra distanza dai viventi è la fondazione della città.
Al suo nascere, la città è un potente fattore di riduzione della biodiversità.
Insediata nel paesaggio, istituisce la ‘distanza’ tra uomo e mondo come un ‘fatto’ e come una ‘visione’ che cambia la percezione che abbiamo di noi stessi.
In quanto ‘fatto’ la città cancella il ‘bosco’, situa la natura altrove da dove abitano gli umani.
Quanto ai cambiamenti intervenuti nella ‘visione’ di sé e del mondo, è forse sufficiente richiamare un passaggio del dialogo sull’amore di Platone.
Fedro accompagna Socrate in un boschetto alle porte di Atene per meglio conversare. Il vecchio filosofo si stupisce e si compiace di tutto ciò che lo circonda al punto che l’amico ne sottolinea l’enfasi dicendogli che sembra non sia mai uscito da Atene. E Socrate gli conferma che è proprio così. Ne uscì solo per il servizio militare e ora, mentre non esita a riconoscere quanto sia bella la natura, sottolinea: “Perdonami carissimo, io sono un uomo che ama imparare. La campagna e gli alberi non mi vogliono insegnare niente, gli uomini della città invece sì”.
Difficile concepire un modo più esemplare di descrivere la separazione tra uomo e natura. La filosofia chiude così con l’ilozoismo e la cosmologia per rivolgersi agli uomini che abitano la polis, l’oggetto da studiare e da cui imparare.
Il luogo della società
Dove le città nascono per la volontà di un magnifico signore, la vita collettiva continua a essere organizzata nelle forme delle comunità tribali, nell’ossequio del Sangue, della Terra, di un Principio Assoluto, custodito da un Re o da uno Sciamano che distingue gli appartenenti alla comunità da tutti gli altri umani considerati ‘barbari’.
Dove invece, a seguito di una crisi intervenuta nella struttura delle comunità arcaiche, le città nascono per la volontà delle popolazioni che si uniscono fra di loro, costituiscono la forma che cambia l’organizzazione dei gruppi comunitari in ‘società’.
Diversamente dalla comunità arcaica, la società ospita le diversità, non nel senso che le accoglie, ciò che sapevano fare anche le comunità, ma come elemento del proprio costrutto. L’ospitalità implica quella reciprocità con cui il termine ospite designa sia l’ospitante che l’ospitato. L’accoglienza non prevede alcuna reciprocità e anzi istituisce la dissimetria tra chi accoglie e chi è accolto.
La società, che ha nella polis il proprio luogo, accede al concetto di umanità cui continuerà a rimanere estranea, nei secoli e nei millenni a venire, ogni tipo di civiltà che sarà fondata su forme di vita comunitarie.
La società, che assume la diversità come proprio carattere costitutivo, ospita le comunità. Al contrario, la comunità, che richiede l’omogeneità dei componenti in rapporto al proprio fine, non può ospitare la società.
La polis è ostetrica della società e, secondo Aristotele, gli umani sono adatti a vivere nella polis perché è il luogo della società che ne esprime, con le diversità, le potenzialità. Quali che siano gli antefatti della ‘civiltà’ nella storia degli umani, quando si afferma la polis, ha inizio una visione di sé che pone la ‘civiltà’ al cospetto della loro ‘cultura’.
Chi sono i ‘tutti’?
La città che ha distinto e protetto l’uomo dal bosco, riproduce al proprio interno lo stesso meccanismo di inclusione – esclusione: perché l’umano sia adatto a vivere nella città, è indispensabile che la ‘cittadinanza’, la ‘democrazia’ e la ‘politica’, requisiti dell’abitare la polis, stabiliscano una gerarchia tra uomini e donne, tra uomini liberi e schiavi. Quel meccanismo si è perpetuato in tutta la storia fino ai nostri giorni. In un cammino che attraversa tre millenni, l’estensione dei diritti civili a ‘tutti’ non ha saputo formulare due domande:
• chi sono i tutti?
• gli altri viventi, appartengono ai tutti?
A ogni evoluzione della storia umana, la platea dei ‘tutti’ si amplia quanto più si riconoscono, a nuovi soggetti, i diritti di tutti. Il che significa che ‘tutti’ non è una entità prestabilita e immodificabile, ma una conquista di civiltà, da perseguire. La società, nata per e in ragione delle diversità, altro non può che alzare un’eureka! quando, ai tutti, aggiunge altri tutti sia che vengano dall’esterno, sia che se li ritrovi in casa propria.
Per contro, a ogni eureka! mancato, un po’ di società vien meno alla società per la semplice ragione che la società stessa non è un’entità prestabilita. Essa, nata nella forma della polis, non esiste ovunque nel mondo, né si può credere che, ove esista, debba necessariamente esistere per sempre. Alla fine del secolo scorso, Bauman scrisse che il cammino compiuto dalla tribù alla società, potrebbe far ritorno alla tribù.
Che poi gli stessi viventi non umani possano appartenere alla società degli umani, questo comporta che la civiltà nata nel luogo della città impari, dalla sua distanza, come guardare al bosco, come custodire insieme la comune ‘cultura’.
La misura della città
Sarà in grado la civiltà, erede della polis, di porsi all’altezza di questo compito?
Hic Rodhus hic salta. L’ostacolo da superare non è altro, né altrove, né in un diverso tempo. La polis aveva una misura. Ai nostri giorni, la città che non ha misura, che è dismisura, illimite col maldicrescere, conurbazione che produce il cancro che la divora, può aprire una riflessione sulla propria dimensione?
Restituire alla città la forma che sia il luogo della società significa ripensare alla relazione che intercorre, ai nostri giorni, fra cittadinanza, democrazia e politica, significa credere che si possa vivere poli(s)ticamente assumendo dunque la città come l’istituzione che rende possibile il vivere in società. Certo, la città è subordinata ai propri superiori, la Regione, lo Stato, l’Europa, le Assise Mondiali, ma la città è il luogo della società, è l’universale particolare e non è necessario elaborare alcun concetto di ‘glocale’, in presenza della città.
Margaret Thatcher poteva ritenere che la società non esistesse affatto perché leggeva le relazioni nella dimensione rarefatta dello Stato da dove è sempre possibile passare, arbitrariamente, dalla macrodimensione dei rapporti mondiali fra le istituzioni alla dimensione domestica dove Berlusconi ritrovava il volto della mamma e dove Salvini ci parla dei suoi figli.
È nel luogo della città che la società si rivela nei rapporti materiali tra le diverse soggettività che si affacciano sulla ribalta della storia riservando la propria attenzione ora ai rapporti religiosi, ora a quelli economici, altre volte alle generazioni, al genere, all’identità etnica, alle attitudini, ai meriti, alle diverse abilità. È da questa vivezza, da null’altro che nasce, o muore, il vivere poli(s)ticamente.
Post Scriptum
L’Italia, per eccellenza il Paese delle città, non dovrebbe essere il più fertile laboratorio dove sperimentare ‘la misura della città per il XXI secolo’?
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