L’Ospedale dei Bambini di Parma: un ambiente centrato sulle relazioni
di Giancarlo Izzi
La medicina al tempo del coronavirus
Siamo in un periodo di grande difficoltà per tutta la società. La Medicina è diventata la star della situazione e, in suo nome, molti medici – a mio modesto parere in modo improprio – stanno diventando coloro che decidono le sorti dell’Italia sotto tutti gli aspetti: sociale, economico, pubblico, mentre poco spazio lasciano agli aspetti sanitari, in quanto l’infezione da SARS COV.2 non è una malattia già conosciuta nei suoi aspetti clinici, eziopatologici ed epidemiologici. Tuttavia essi si propongono (o vengono percepiti) come scienziati, detentori di verità, mentre la Medicina è una disciplina fondamentalmente empirica. Ma la Scienza stessa non è certezza, non è verità assoluta – come spesso si vuole spacciare – ma si alimenta di dubbio, di ricerca tramite ipotesi e tesi da verificare, di confronto e di interpretazioni contraddittorie della complessità della Natura. Le teorie scientifiche non sono mai definitive, ma vanno incontro a continue trasformazioni, rivisitazioni e verifiche. Non può essere la Scienza medica a dare risposte definitive, tantomeno politiche. È anche un tempo di crisi della Medicina che non ha più un polo di attenzione unitario e centrale – il malato -, ma ha ormai almeno tre “padroni”: il malato (o l’”esigente”, secondo Cavicchi), il sistema sanitario, come amministratore di risorse, la magistratura, come minaccia costante.
La cronaca sta riportando in grande evidenza il valore della Medicina e dei suoi operatori, dando rilievo alla relazione tra operatori e malati. Grandi emozioni sono richiamate sulla stampa da chi è guarito e da chi ha accompagnato il percorso faticoso dei morenti. Da qui, questo mio breve scritto che ricostruisce alcuni tratti del percorso di realizzazione dell’Ospedale di Bambini di Parma, avvenuta fra il 2006 e il 2013.
La centralità delle relazioni come linea guida progettuale
Quando abbiamo pensato alla costruzione di un nuovo ambiente ospedaliero pediatrico, in particolare l’Ospedale dei Bambini “Pietro Barilla”, abbiamo potuto agire liberi dai vincoli dovuti alle classiche strutture tecniche ospedaliere grazie alla particolare autonomia progettuale che si era potuta realizzare. L’ambiente ospedaliero che abbiamo voluto costruire, doveva avere come riferimento le relazioni tra tutti i partecipanti alla fase di ricovero. Potevo basarmi, in tal senso, sulla mia lunga esperienza personale di pediatra, durante la quale ho prestato particolare attenzione alle dinamiche relazionali che si hanno nel momento dell’ospedalizzazione e durante il suo corso, cercando di intercettare e interpretare la complessità di quanto avviene in questo periodo così problematico e, spesso, prolungato.
Per capire, dobbiamo fare un passo indietro, a prima del momento del ricovero, a casa, quando nasce l’idea che sia necessario portare il proprio figlio in ospedale. Quanta pressione, quante domande, quante incertezze, quante speranze e dubbi si accumulano nei genitori in un momento così cogente: «Il mio bambino sta male e io non so cosa fare!»; «Ho bisogno del parere di un esperto che risolva la situazione!»; «Devo portare mio figlio in ospedale!». Si affacciano quindi tante paure e preoccupazioni a causa dell’inesperienza, delle cose sentite intorno, degli scenari problematici – spesso eccessivi – colti dai media, dei racconti trasmessi da amici e parenti. Dover chiedere un aiuto così impegnativo manda spesso la famiglia in una situazione di estrema tensione, a cui si aggiungono le situazioni di necessità aggiuntive qualora ci siano altri componenti della famiglia – quali altri figli minorenni o anziani non autosufficienti – cui trovare una temporanea sistemazione.
Ma cosa avviene una volta arrivati in ospedale?
I genitori, oppressi da tutte queste tensioni, temono, nel momento in cui chiedono l’intervento dei sanitari, che la richiesta di aiuto sia la dimostrazione pratica che sono dei genitori inadeguati: incapaci di prendersi cura del proprio bambino, incapaci di valutare adeguatamente la situazione, incapaci di essere buoni genitori. Già questo è un ulteriore momento di tensione, che rende ancora più facile l’aggressività verso i sanitari, l’intolleranza delle attese, la difficoltà del dialogo.
E il bambino? Cosa succede nel bambino portato in ospedale?
Il bambino vede completamente sovvertito il rapporto con i propri genitori. Sino all’età preadolescenziale, egli ha un’immagine chiara dei propri genitori: sono coloro che sono in grado di dare una soluzione a tutti i suoi problemi. A tutto i genitori offrono una risposta, spesso con determinazione e chiarezza, a cui eventualmente il bambino si può contrapporre – e oggi questo avviene sempre più -, ma che è comunque una risposta.
Arrivato nel contesto ospedaliero, il bambino avverte che i genitori non sono più sicuri di sé: di quanto c’è da fare, di come gestire il figlio, ecc… Dal momento del ricovero, sono i sanitari che dettano le regole: «Aspetti lì! Mi dia questi documenti! Adesso risponda alle domande, al bambino ci pensiamo noi». Il bambino vede i propri genitori tesi, preoccupati, incerti, succubi delle regole dettate da altre persone, vestite in modo inconsueto, in un contesto del tutto nuovo. Colori, rumori, odori, arredi, pareti: tutto diverso dalla propria casa, dalla propria scuola, dalla casa dei nonni, degli amici. Questo spaesamento del bambino non può trovare una risposta nel comportamento dei propri genitori, altrettanto disorientati.
Tuttavia, anche i sanitari hanno le loro difficoltà: problemi di turno, sostituzioni incalzanti, riposi saltati, ma magari anche familiari malati, speranze disilluse, aspettative mancate. Talvolta il piccolo malato ricorda il proprio figlio, il proprio nipote. L’ospedale, a mio modo di vedere, è un luogo in cui tanti mondi si incontrano e interagiscono. Ognuno viene dal suo mondo, ricco di sentimenti, di aspettative, di fatica e di speranze, e si incontra col mondo dell’altro che arriva – per caso – nello stesso luogo: l’ospedale.
È da queste esperienze a lungo vissute che, al momento della progettazione di un nuovo servizio ospedaliero pediatrico, è nata la richiesta, rivolta agli architetti, di creare ambienti nei quali contenere, da subito, un impatto così denso di emozioni e di contrasti, creando degli spazi “quasi familiari” attraverso l’uso dei colori, degli arredi, con attenzione non solo alle esigenze delle persone adulte, ma soprattutto a quelle del bambino. Abbiamo voluto, ad esempio, che nel bancone d’ingresso, dove avviene il contatto iniziale, ci fosse una parte comoda di appoggio per gli adulti di una certa altezza, ma anche una parte, molto più bassa, che permettesse al bambino di vedere l’operatore e partecipare così alle prime interazioni col personale, di modo che potesse sentirsi parte di questo evento che non avveniva sopra di lui, ma che lo coinvolgeva fin dal suo primo momento. Il bancone è diventato una superficie con colori cangianti, che offrono un’immagine piacevole senza tuttavia ricadere nei modelli di arredamento bambinesco, tipico delle scuole dell’infanzia. L’idea guida è che il bambino si senta accolto in modo gradevole, ma come persona, con gli stessi diritti di attenzione che sono riservati ai familiari.
La stanza del bambino: un luogo da abitare
Negli ospedali che ho frequentato, ho avuto la possibilità di vedere tutto il meglio e tutto il peggio che l’umanità, nella sua varietà e complessità, può mostrare. In essi avvengono relazioni di alto significato e di grande intensità emotiva, per tutti coloro che sono coinvolti. Nell’ospedale si arriva pieni di speranze, ma anche di preoccupazioni, traumatizzati dal momento di malattia che si sta vivendo, ma portando con sé il proprio bagaglio di cultura, di conoscenze, di capacità, compreso il ruolo sociale che si vive, con tutto il vissuto legato alla propria famiglia, alle proprie convinzioni religiose, alle proprie informazioni che abbiamo maturato fino a quel momento. La gran parte delle persone, purtroppo, siano essi malati siano familiari o amici, non hanno invece la capacità di vedere che nell’ospedale lavorano altre persone che, come loro, hanno preoccupazioni, conoscenze, esperienze e affanni come avviene a tutti. Pertanto la relazione avviene tra un soggetto che esprime tutte le proprie esigenze e un soggetto che dovrebbe rispondere a tutte le attese, senza una considerazione però della persona che, in quel momento, abita il camice che riveste l’operatore.
Da qui la grande difficoltà del dialogo e la richiesta di umanizzazione, a cui gli “esigenti“ – come li definisce Ivan Cavicchi (ossia i malati e i familiari) – non contrappongono una pari umanizzazione, ma pretendono la risoluzione dei propri problemi, senza condividere i percorsi, i dubbi, le soluzioni che talvolta non possono essere risolutive.
A queste considerazioni, un po’ generiche e quindi non esaustive, si aggiunge, nel caso dell’Ospedale dei Bambini, il vissuto dei bambini stessi, spesso caricato di nozioni molto superficiali, spesso sbagliate, sempre contornate da un alone di paura e di preoccupazione, che è, per lo più, superiore alla realtà dei fatti. Le fantasie popolano la sua mente, piena di dubbi, incertezze e nozioni terrifiche, spesso trasmesse dagli adulti: «Se non mangi, ti porto in ospedale!» oppure «Se non prendi le medicine, me ne vado» o anche «Là ti faranno le punture!» e altre facezie del genere che ancora oggi vengono dette ai bambini.
Senza volerci dilungare su tutti i molteplici aspetti dell’esperienza che si realizza nel contesto ospedaliero pediatrico, voglio riportare l’attenzione su un secondo importante spazio che abbiamo cercato di ripensare: la stanza di degenza. Questo ambiente è il luogo privilegiato in cui l’esperienza di malattia del bambino e dei familiari viene vissuta. Ecco perché abbiamo voluto che questo luogo avesse delle caratteristiche tali da non essere facilmente etichettabile come stanza di degenza, ma piuttosto come stanza di vita familiare, con arredi non ospedalieri realizzati su misura e con criteri specifici. Tale invenzione ha permesso di creare degli ambienti che sono completamente diversi da quelli a cui siamo abituati in ospedale, compresi quelli che ambientano le serie televisive di carattere medico, piene di apparecchiature, di letti tecnologici con sponde di sostegno, con lampade e prese di supporto sopra e a fianco del ricoverato. In questi scenari non c’è spazio per la persona e i suoi bisogni di individuo, ma tutto è orientato alla sua malattia. Quale tipo di relazione può attivare il bambino in ambienti così costruiti? quale tipo di condivisione può essere gestita dal bambino malato e dalla sua famiglia in uno spazio nel quale tutto è a servizio della tecnologia assistenziale per la malattia?
Nella progettazione di un ospedale che fosse abitabile dai bambini, noi abbiamo voluto invece che prevalesse, sempre, la persona, coi suoi affetti, le sue convinzioni, le sue aspettative. E che questa persona viva fosse la base che permette ai soggetti di poter condividere con i sanitari le scelte che riguardano la propria salute e la cura della propria malattia.
Non tutto, del bambino malato, è malato
Dietro questo orientamento progettuale, vi è di un percorso culturale molto complesso, maturato nel tempo, sintetizzabile in quel concetto e motto che ho seguito nel mio percorso professionale sin dall’inizio: «Non tutto, del bambino malato, è malato». C’è una parte che non è malata, che non è la sintomatologia della malattia, che è presente nella stanza di degenza, nel reparto, nell’ospedale. A questa parte, noi abbiamo scelto di dare spazio, ma soprattutto di dare accoglienza, per fare in modo che la persona possa rafforzare le proprie caratteristiche personali attraversando l’esperienza della malattia, della sofferenza, delle limitazioni sociali conseguenti. Abbiamo voluto dare attenzione alla crescita della sua personalità, all’acquisizione di competenze maggiori, comprese quelle relative alla gestione tecnica della propria malattia, compresa l’accettazione condivisa di un percorso difficile ma vitale. Un percorso che, passando attraverso la fantasia e il gioco, possa diventare spazio di acquisizione di conoscenze, di competenze nuove, di apprendimenti utili per la crescita.
È quindi sulla base di queste considerazioni, che abbiamo scelto pareti con colori che fossero compatibili con l’esperienza domestica, sulle quali poter disegnare o attaccare i propri disegni come segno di personalizzazione dell’ambiente, così che il bambino, al momento del risveglio, potesse ritrovare segni di sé e della propria vita. Un bambino che, nella situazione speciale in cui si trova, deve riconvertire i rapporti con la mamma, ansiosa per la malattia e incerta per la presenza di altre figure femminili – le infermiere o le dottoresse – che sanno come gestire il corpo dolente del figlio, sanno come dargli sicurezza; come dare risposte alle sue domande. Mentre lei – la madre – non si sente più capace di contenerlo, di trattenerlo a sé e vede il “suo” bambino gestito da mani altrui, sorridere ad altre donne vestite con divise e capaci di atteggiamenti appropriati, mentre lei è stanca, tesa, irritabile e un po’ sgualcita. Ma anche il papà è cambiato: privo dell’alone di forza e di sicurezza di prima, preoccupato e incerto sul da farsi, in attesa di notizie fornite dai medici, che invece ordinano e dispongono le scelte future del figlio.
Questo e tanto altro avviene nelle stanze di degenza, oltre alla malattia e ai suoi sintomi, alle sue sofferenze, alle sue incertezze e difficoltà. Ecco perché la stanza di vita familiare è uno “strumento” di cura, un contenitore di relazioni, intense e molteplici, vivide e forti.
La struttura ospedaliera, le scelte di arredo, la presenza o l’assenza di apparecchiature o oggetti, le dinamiche interpersonali che si compiono, fanno tutte parte dell’attività e del progetto dell’Ospedale dei Bambini di Parma. È importante che chi vi entra, per qualsiasi motivo, possa avvertirne la presenza e viverne l’esperienza culturale, morale, scientifica e non solo la dimensione terapeutica. Per questo mi pare utile continuare a parlarne sia per preservarne lo spirito originario sia per farne tesoro in ulteriori progetti innovativi di cui il SSN ha particolarmente bisogno in questo momento!
Parma, 1 maggio 2020
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