La distanza della didattica
di Alessandro Bosi
Una distanza precorritrice
La sera del 30 settembre del 1861, un bambino, figlio di contadini, prepara la borsa a tracolla per il primo giorno di scuola. Vi sistema un libro, un quaderno, un astuccio di legno con matita, gomma, cannuccia e pennini. Non aveva mai visto quegli oggetti, né qualcuno li aveva usati in famiglia.
La mattina dopo, il bambino si sveglia al levar del sole e come al solito aiuta gli adulti nella stalla. Più tardi, a piedi, raggiunge la scuola, distante alcuni chilometri. Entra nell’aula dove vivrà il primo anno scolastico e gli occhi incontrano un mondo sconosciuto. Vi sono grandi banchi di legno, allineati in tre file e orientati verso la cattedra. L’insegnante invita i bambini, una quarantina, a prendere posto. Risponde all’appello della maestra e, ascoltandola, conosce il mappamondo, il pallottoliere, la lavagna con i gessi, il crocefisso appeso alla parete, l’immagine del Re d’Italia. La maestra dice che gli alunni, Cristiani e Italiani, impareranno a leggere, scrivere e far di conto. Per ora, non può capire che cosa significa e forse non capirà mai a cosa possano servire, se i genitori sono diventati grandi facendone a meno. In un intervallo, fa le prove di essere il componente d’una classe.
All’uscita da scuola, vede altre scolaresche, altri insegnanti (più spesso donne), i bidelli. S’imbatte nel direttore (più spesso uomo). Sfilandogli davanti, in fila con i compagni di classe, lo saluta con un inchino, come ha ordinato la maestra, e ne resta atterrito.
In poche ore, ha incontrato un mondo più vario di quello che frequentava. Conosceva i componenti la famiglia e i contadini delle case vicine. Di giorno si disperdevano nei campi. Le sere d’inverno, condividevano nelle stalle l’abitudine del filò, d’estate si riunivano a chiacchierare e cantare sull’aia. Ma tante persone insieme, non le aveva mai incontrate: neppure al mercato o nelle sagre paesane. Ora che sta tornando a casa, percepisce di essere stato in un mondo distante da quello nel quale è cresciuto. Assai presto, capirà come quella distanza lo divide da un futuro che i suoi genitori non avrebbero mai potuto immaginare.
Pochi figli di contadini hanno saputo percorrere quella distanza. I più, ne sono fuggiti spaventati e la didattica nulla ha potuto per trattenerli.
Una distanza stantia
Ai nostri giorni, quale che sia la sua appartenenza sociale, nulla sorprende un bambino al primo giorno di scuola: tutto gli è abituale. Anche in seguito, divenuto studente, non sarà la scuola a orientarne lo sguardo al futuro; altrove cercherà il brulichio della storia. Dall’ultimo ventennio del secolo scorso, la scuola si è fatta carico di ogni problematica educativa assumendola come un proprio dovere. In questo modo, ha reso evidente l’eterogenesi dei fini sui quali, come ogni istituzione, è fondata. Ai genitori, impegnati nel lavoro, la scuola garantisce la custodia dei figli e l’intervento nelle diverse emergenze secondo una delega educativa sempre più ampia e mai definita nei particolari.
La domanda se le molte educazioni siano un surrogato per nascondere la mancanza di educazione, reiteratamente formulata in quegli anni, rimane inevasa. Nel frattempo crescono le pretese delle famiglie che scelgono sede e insegnanti secondo le proprie esigenze e, cadute le regole sul rapporto scuola-famiglia (i decreti delegati), su tutto impongono una contrattazione individuale.
La nuova situazione impone a ogni istituto di proporsi attraverso un’offerta formativa che, tuttavia, difficilmente può competere col libero mercato delle agenzie educative cui si rivolgono le famiglie più facoltose e con un’offerta del nuovo elargita doviziosamente e gratuitamente a chiunque. Neppure il bimbo più povero ha negli occhi quel che aveva il contadinello dopo aver lavorato nella stalla; ma nel suo mondo multicolorato la scuola è un’immagine in bianco e nero.
Con la scelta delle tecnologie informatiche, promossa dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1998, la scuola ha ridotto la distanza della didattica dal nostro tempo. Il loro uso consente, a chi è portatore di alcune disabilità, di ottenere risultati insperati; è inoltre essenziale nei Comuni privi di scuola. Su questi argomenti, dimenticati nelle polemiche di questi giorni sulla Didattica a Distanza, Giuseppe Turchi interverrà nei prossimi giorni su Prospettiva. A me preme riflettere sulla socializzazione nella DaD.
Socializzazione o bullismo?
Il Ministero della P.I. ha precisato che l’interruzione delle lezioni in presenza è dovuta ai noti motivi sanitari, ma alcuni commentatori temono un graduale cambiamento a favore di una più economica istruzione on line e sottolineano il valore imprescindibile della socializzazione nella scuola e nella crescita delle giovani generazioni.
Ma non ci eravamo lasciati con la preoccupazione per l’invadenza del bullismo e della violenza nella scuola? Non era questo, da anni, l’argomento che più preoccupava l’opinione pubblica? Gli eccidi negli Stati Uniti, dove le armi sono state introdotte impunemente nella scuola, non erano stati indicati come una deriva da scongiurare? Non vi è una letteratura e una cinematografia che, da molti anni, sottolinea, a volte in modo ironico, altre volte con crudo realismo, la violenza nelle scuole? Qual è dunque lo stato delle cose?
La socializzazione nella scuola è un valore del presente o di un passato rimasto nel ricordo di chi lo ha vissuto o lo ha concepito come un fine da perseguire?
Certamente, nella scuola pubblica alla seconda metà dell’Ottocento, la socializzazione costituiva un’architrave dell’educazione. Ne abbiamo una prova esemplare nel romanzo di Edmondo De Amicis Cuore, un’opera di grande valore culturale, se non letterario. L’autore mostrò come la scuola pubblica sapeva conciliare, nell’educazione del cittadino, gli interessi dello Stato, della famiglia, del lavoro sottolineando il valore di un’istituzione che realizzava un disegno organico alla società. La socializzazione dei giovani, che esce dal ritratto dei singoli scolari nelle relazioni con la classe, non nasce nella scuola, ma nella condivisione degli spazi e dei tempi di vita. La scuola assolve al compito di promuoverne la consapevolezza negli scolari.
Ai nostri giorni, il discorso è lo stesso: la scuola, che è parte della società, non è creatrice di socializzazione, di fratellanza, di antifascismo. In essa, questi valori sono presenti nei dirigenti, negli insegnanti, negli studenti, negli altri soggetti che la compongono e negli stessi genitori, insieme ai disvalori dell’individualismo, della competizione, del fascismo. Nella scuola pubblica vive la società con le sue contraddizioni. È un suo compito affrontarle contemperandole. Per inciso: dicendo che questo avviene nella scuola pubblica, non intendo distinguerla da quella cosiddetta privata che, nel nostro Paese, è pubblica anch’essa, non esistendo scuole alle quali possano iscriversi solo persone che dichiarino appartenenze esclusive.
L’inno alla socializzazione nella scuola è stucchevole per la sua carenza nella società. La cultura del Novecento l’ha sostituita con la massificazione che corrisponde a ragioni eminentemente economiche (riunire più utenti consumatori in spazi e tempi ridotti per consentire maggiori profitti). Per lo più si plaude alla socializzazione quando ingenti masse rispondono agli appelli per una buona causa. Ma sono risposte emotive che non otterremmo se si formulassero richieste fondate sulla ragione. Le scolaresche di trenta alunni e gli istituti con migliaia di studenti non sono luoghi nei quali praticare la socializzazione. Come non lo sono le metropolitane, i concerti, le spiagge d’estate, le movide.
Si vuole la socializzazione nella scuola? Si cominci col restituire ai bambini i cortili, le strade, i quartieri dove condividere tempi e luoghi di vita in comune. La città sia un luogo educativo, la prima scuola di vita del bambino. La discussione sulla didattica può attendere.
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