Latenze e sedimentazioni: alcune riflessioni su identità e ritorni

di Giusy Diquattro – Tra non molto tornerò in Sicilia, per le vacanze, e le vacanze dovrebbero essere questo, un momento di sospensione, vacatio. Si sospende la vita frenetica della città, di Torino, si sospende il ruolo civile d’insegnante, si torna e il passato sospeso lo ritrovi aggrumato in oggetti e volti che non hai avuto il tempo di consumare, cristallizzati in una immagine che non corrisponde alla realtà, perché sono stati fermi, in stand by, o si sono mossi nella mente in un girotondo improbabile e allucinatorio.

Torni e inizia la giostra di ‘quelli che stanno fuori’. Ci sono i racconti che hanno una narrazione comune: dimostrare che la lontananza ha ripagato, si dice ‘cu nesci arrinesci’, chi esce riesce, chi va via si realizza. Dispiace dirlo, ma nella maggior parte dei casi è così: in quella terra di zagara e zolfo chi parte sente una forza enorme comprimere, si viene espulsi da un nuovo parto e a una nuova vita e allora partire è la possibilità del desiderio e dell’immaginario; la destinazione è la terra che può dar parola, che può rompere il silenzio della non possibilità per aprire percorsi di espressione. Chi va via vuole essere.

Partire è un trauma che lascia latenze di spazio e di tempo. Il tempo procede a salti e lo spazio non è mai il tuo spazio; poi il tempo passa, ci si abitua, ci si ‘adatta’. Quando torno a Ragusa non ho dubbi, anche se la luce mi taglia e il mare mi offende di bellezza, mi dico che partire è stata per me la cosa giusta da fare. Quando lascio Torino dopo un po’ mi manca, ma le sue strade per me hanno una pallida storia, i suoi cognomi per me non vogliono dire nulla. Per me Torino sono le scuole che ho girato, la città degli affetti e dei santi sociali, le storie dei migranti che ho incontrato, le amicizie che mi hanno fatto crescere e amare la vita; tuttavia non c’è nessuno che incontrandomi possa dirmi: ‘Tu somigli a tua madre o a tuo padre’. Sono quei momenti in cui non ti senti nessuno, in cui ti percepisci trasparente e indifferente agli altri, perché il tuo viso non porta una storia.

Allora cosa è identità? È forse una forma in cui siamo facilmente riconoscibili? Uno slogan a cui a volte si fa l’occhiolino per evitare oziose discussioni da cui si esce svuotati e pieni di non senso?

Credo che emigrare, se il progetto migratorio ha avuto successo, (ma anche questa espressione cosa vuole dire fino in fondo?) rappresenti la possibilità di realizzarsi, di esprimersi, di trovare un luogo dove sbocciare. Allora identità potrebbe essere avere trovato una parte della cifra di se stessi, una declinazione di sé che l’altro ti riconosce. Spesso è un riconoscimento di tipo sociale, di ruolo. Identità per me è uno stile, un modo di essere, che cambia, si trasforma, ma in cui c’è comunque la tua impronta.

Pisa e Torino, prospettive da cui guardare la Sicilia, due città coi fiumi dove ho scoperto e praticato la scrittura, dove ho conosciuto molte italie e molti mondi, dove adattarsi ha significato smantellare sedimentazioni calcaree di percezioni assodate e visioni frontali, dove ho imparato ad amare altre luci e paesaggi e le sfumature hanno preso il posto di contrasti violenti. Il lontano come condizione necessaria per pensare, per leggere, per capire. Pertanto la Sicilia è diventata una metafora, un luogo immaginario, una dimensione fantastica, è diventata la terra della Storia, di un’insularità oppressa e che a volte opprime, dalla vitalità improvvisa e sotterranea, generosa e debordante, la vita stessa, bellissima e feroce.

Mi chiedo a volte che tipo di conoscenza dia la migrazione, se ci sia vera conoscenza nell’esperienza di un trauma, se ci sia una cognizione del dolore, o se per certi versi tale esperienza lasci ignoranti. Perché a volte si preferisce ignorare zone di sofferenza, quelle zone che si muovono come ombre sulle parole e allora rimangono mute, quelle zone che ci hanno spinto a partire per ribellione, per ambizione, per sfinimento, per vigliaccheria, per bagliori di megalomania, per essere chiunque in un posto in cui non si è nessuno.

Perché non si dice, ma c’è un’ignoranza che aiuta a vivere, a sopportare, è quel non voler vedere e sentire suoni dell’infanzia, è scegliere di stare nell’intercapedine della quotidianità, nel tempo del fare e della progettualità. Probabilmente è un’ignoranza necessaria, parte della dialettica di memoria e oblio, in cui dimenticare aiuta. Ma la memoria di chi parte è una memoria fallace, soggetta ad un trauma, a volte è fatta più che di oblii necessari e fisiologici, di rimossi che ritornano inaspettati e invadenti, sono momenti di spaesamento a volte impercettibili, in un umorismo che ti sfugge, in una parola che non riesci a tradurre. Si ritorna nei luoghi, li visitiamo nei ricordi o nei desideri, anch’essi hanno uno stile, un modo di piegare la testa e muovere le mani, come le persone, gli incontri che ci sorprendono. I luoghi sono infiniti, bisogna imparare ad amarli, conoscerli e rivisitarli per dare loro un senso nuovo, e se anche lo sguardo è fatto di crepe e inganni, bisogna amare anche quelli, i segni in cui il terreno ha ceduto e dove forse si apre uno spazio di ascolto autentico dell’altro e di sé. 1

Giusy Diquattro è nata a Ragusa. Laureata in Filosofia presso l’Università di Pisa con Remo Bodei sul concetto di Conversione in Agostino, nel 2000 vince una borsa di studio presso l’Università di Bucarest sul Diario della felicità di Nicolae Steinhardt, nel 2005 consegue il perfezionamento in Comunicazione e Mediazione Interculturale presso l’Università di Torino. Dal 2000 vive a Torino, dove insegna Lettere. È raccoglitrice di storie di migrazione per il Centro Interculturale, con cui ha pubblicato Victory at the end in Il cibo in valigia (2015) e Nora Moskora in Andata e ritorno. Percorsi tra genitori e figli, ANANKE lab (2018). Alcune sue poesie sono state inserite nelle seguenti antologie: Enciclopedia di Poesia Italiana, vol. 8/2017, Fondazione Mario Luzi Editore (2018); Prosa poesia per la pace, Africa Solidarietà Edizioni (2019); Poesie per Dio. Quasi una preghiera, Edizioni La Zisa (2019); Un paio di scarpette rosse, Kanaga Edizioni (2019), Canti per la pace, Africa Solidarietà Edizioni (2020).

Notes:

  1. La presente riflessione nasce dall’incontro con le scrittrici Ana Kramar e Rosana Crispim da Costa su Lingue, luoghi e identità, all’interno di un ciclo di conferenze online svoltosi tra maggio e luglio 2020 sui Paesaggi storici e letterari della migrazione, ideato da Adel Jabbar, sociologo dei processi migratori e transculturali, e pensato come momento di approfondimento e confronto per il gruppo di studio sulla Mediazione interculturale.

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Una risposta

  1. Cosima Ligorio ha detto:

    Brava che hai colto nel segno: la complessità della vita dei migranti.
    La vita è movimento!!!!! Chi si si ferma è perduto!!! Lo diceva mia nonna nella sua saggezza di persona semplice.

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