Mogabixio
immagine dal sito Museo Filippo Corridoni
di Andrea Galletti
A metà giugno di quest’anno, nell’Oltretorrente parmigiano, diverse associazioni di quartiere promuovevano una raccolta firme per riqualificare il monumento dedicato a Filippo Corridoni, morto durante la Grande Guerra. Nel testo fatto circolare tra i cittadini si legge che «…il piazzale e l’inizio di via Bixio sono spesso stati, e lo sono tuttora, teatro di traffici poco leciti, schiamazzi, bivacchi e conseguenti situazioni di degrado sia di giorno che di notte». Di conseguenza si chiedeva di impedire l’accesso ai comodi gradoni alla base del monumento, di cui talvolta anche chi scrive ha usufruito per fare due chiacchiere con gli amici o mangiare un pezzo di pizza, che accoglie spesso ospiti indesiderati. Che dire di più? Questa situazione non è nuova e non è una prerogativa dell’Oltretorrente, ma perché dà così fastidio? Ma soprattutto, quanto di quello che abbiamo letto è vero e quanto invece frutto di una narrazione distorta per giungere a un fine preciso?
In realtà quasi tutto è vero: spesso molta gente si ferma a parlare sotto Corridoni, magari bevendo qualcosa, mentre sui traffici poco leciti si può dire poco, dato che quando avvengono rimangono celati alla vista dei più. Allora dov’è il problema? Le cause di turbamento che hanno portato a questa richiesta sono due: il colore della pelle di chi occupa questo spazio e il dimenticato scopo dell’occupazione del suolo pubblico. Infatti la maggior parte di chi si ferma a conversare sotto Corridoni ha un colore dell’epitelio troppo scuro per poter pensare a una semplice abbronzatura, cosa che, nonostante tutti proclami che risuonano nel nostro paese e le recenti manifestazioni di solidarietà verso i movimenti come Blacks lives matter e simili, resta per molti un serio fattore di discriminazione. L’Italia, e Parma con essa, resta un paese razzista. Ma non è questo il problema, pur gravissimo e di difficile soluzione, di cui ci vogliamo occupare.
La questione che ci interessa ruota intorno al modo in cui questo spazio viene fruito. A cosa serve una piazza? La tendenza nella nostra città, ma non solo nella nostra, è quella ad abbandonare i luoghi di ritrovo e di condivisione in favore di un tipo di socialità orientata verso il ritrovo in luoghi in cui poter consumare, elemento a volte più importante del semplice contatto con altri esseri umani. Le persone che di fatto sono le uniche ad abitare piazza Corridoni ci danno fastidio perché siamo razzisti e perché ci siamo dimenticati come si può utilizzare lo spazio condiviso all’interno di una città. Questo non dev’essere solo un luogo di passaggio che ci separa da un edificio a un altro (casa, ufficio, negozio, locale, ecc.), ma anche uno spazio in cui favorire interazioni umane, un luogo inclusivo per antonomasia. Chiedendo di bloccare l’accesso al monumento di fatto chiediamo di svuotare uno spazio che per avere senso deve invece essere vissuto. Impedendo l’accesso agli indesiderati lo impediamo anche a noi. Con questo non stiamo a dire che tutti quelli che passano sotto Corridoni siano integerrimi cittadini, ma la presenza in piazza di persone che hanno problemi o che talvolta creano problemi è in realtà un riflesso di quanto detto sopra. I cittadini hanno abbandonato lo spazio in condivisione, lasciandolo a chi non ha altro posto in cui andare. In questo modo si mettono in evidenza i contrasti tra chi per vivere in società può permettersi di regalarsi una serata al ristorante o di invitare gli amici a casa e chi invece non può fare nessuna delle due cose. Mettiamo in mostra il disagio e le difficoltà di una fascia di popolazione, con cui non possiamo e non vogliamo entrare in contatto perché non viviamo gli stessi luoghi.
Se abbiamo tanta paura di perdere un determinato luogo, non dobbiamo vietarne l’accesso agli indesiderati, ma aprirci di nuovo a esso, cercando di capire e conoscere chi lo frequenta. Ritornare a popolare gli spazi aperti della città potrebbe essere l’occasione di instaurare nuovi legami, di conoscere e di farsi conoscere, un’occasione importante per ridare vita a un tessuto sociale quanto mai sfilacciato e atomizzato, che rende molto più facile la penetrazione di razzismo e intolleranza al suo interno. Mettiamo panchine, non catene. Una comunità unita al suo interno, se ben disposta, magari resa ricettiva dal lavoro un’amministrazione attenta a queste tematiche, può avere l’elasticità necessaria per accogliere al suo interno elementi estranei che possono essere fonte di arricchimento, non solo di paure più o meno fondate. Se invece pensiamo a mettere catene e fioriere, a ‘riqualificare’ ‒ termine ambiguo e spesso impiegato a sproposito ‒ reagiamo nella maniera più rapida a un presunto problema, ma in realtà perdiamo tutti qualcosa. Guardiamo a coloro che abitano gli spazi comunitari e chiediamoci per una volta se non siamo noi ad avere qualcosa che non va, non il contrario. L’esempio degli indesiderati della piazza ci fornisce un modus vivendi che abbiamo perso e che per la vita comunitaria resta invece indispensabile, mettendo in evidenza la correlazione tra degrado dello spazio pubblico e individualismo sempre più spiccato.
Alcuni di quei ragazzi che chiacchierano in piazza sono richiedenti asilo provenienti dalla Somalia, che non sono a Parma per divertirsi, ma perché cercano come tanti di farsi una nuova vita. La piazza, quella piazza, è diventata parte di una nuova quotidianità, di una nuova vita. Cercano di trovare un loro posto in una realtà diversa dal loro paese di origine, all’interno di una società che non favorisce la loro integrazione e li guarda con sospetto, perché hanno un colore della pelle diverso e parlano una lingua diversa. Per loro, piazza Corridoni è diventata un po’ casa. In una parola: Mogabixio.
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