Fraternità e politica-Dialogo sulla Lettera ‘Fratelli tutti’
Il 3 ottobre di quest’anno Papa Francesco ha firmato ad Assisi la lettera enciclica ‘Fratelli tutti’, che invita l’umanità tutta ad agire in un’ottica di fraternità e riconciliazione globale alla ricerca di un nuovo orizzonte per il mondo contemporaneo. Il contributo che segue è parte di un dialogo, franco e approfondito, con una serie variegata di interlocutori, sulla lettera neo pubblicata e sulle tematiche di fraternità e amicizia sociale cui è dedicata.
Chiuso e aperto sono i due aggettivi che qualificano, in drammatico contrasto, il titolo del primo e del terzo capitolo, rispettivamente, della Fratelli tutti: ‘Le ombre di un mondo chiuso’ e ‘Pensare e generare un mondo aperto’. Su quest’ultimo, in particolare, vorrei soffermarmi, per evidenziarne la convergenza con le sfide politiche emergenti dalla crisi radicale del moderno ‘progressismo’ liberale e socialista. Ma per trattarne adeguatamente è necessario insistere prima sui toni gravemente preoccupati dell’intero primo capitolo, volto a delineare le «ombre», com’è scritto, dello scenario globale nel quale la parola fraternità si propone di portare sprazzi di luce, respiro dell’«aperto».
All’apparente prudenza dell’intento esposto all’inizio del capitolo (§.9), dove si dice che verranno richiamate «alcune tendenze» del nostro tempo, fa seguito, nei 46 paragrafi di cui esso è composto (sui 287 complessivi dell’Enciclica), un affresco planetario di «tendenze» distruttive soverchiante, reso ancor più cupo nei toni dalle angosce sorte dal «disastro mondiale» (§.34) causato dalla pandemia. Talmente soverchiante da esser tentati di trarne che forse davvero ormai solo un dio ci può salvare, com’ebbe a dire Heidegger.
Ma anche senza seguire la suggestione (la linea di fuga, pare a me) heideggeriana, non c’è dubbio che qualsiasi riflessione sul nostro presente che lo interroghi in spirito di verità non può permettersi di eludere la drammaticità ‘apocalittica’ del contesto planetario in cui ci si trova ad agire e interagire: perdurante stato di guerra, nuove chiusure nazionalistiche, nel cuore stesso dell’Europa, stili di vita ecologicamente distruttivi, economia dello scarto, nuove povertà, razzismi, populismi, colonizzazioni culturali, diritti misconosciuti, minori e donne che non cessano di essere maltrattati, vaste migrazioni prive di accoglienza, imbarbarimento della comunicazione di massa… E che senso può avere la parola stessa «aperto», quando oltretutto «‘aprirsi al mondo’ è un’espressione che oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza» (§.12)?
Difficile sfuggire alla sensazione di cogliere in questa enciclica toni da ‘ultimo appello’. E difficile non richiamare alla mente quell’immagine piccola e bianca del Papa in preghiera solitaria nella grande piazza San Pietro deserta e grigia per la pioggia, lo scorso 27 marzo, in piena emergenza pandemica («…fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città…»).
È in quello stesso punto, sull’orlo del medesimo abisso, che siamo condotti, credenti, non credenti e diversamente credenti, dal primo capitolo dell’enciclica. E non per invitare i convenuti a rifugiarsi nella potenza salvatrice del Dio cristiano-cattolico (essenziale per questa enciclica l’incontro con l’imam Ahmad Al-Tayyeb, come nella precedente quello con il patriarca ortodosso Bartolomeo; e costitutivo, nel solco del Vaticano II, il dialogo con tutti gli «uomini di buona volontà»). Ma per coltivare lì, insieme, sull’orlo di quell’abisso comune, dove anche la potenza di quel Dio mostra apertamente la sua intima fragilità – lì e non in qualche linea di fuga ‘heideggeriana’ o bigottista dal destino presente –, le possibilità d’immaginazione e d’azione che, paradossalmente, solo nell’accoglienza dell’ineluttabile prendono vita e corpo, creativamente.
Insieme, ma senza scorciatoie unanimiste, come in quegli afflati universalistici “modernisti”, tesi a stemperare differenze e conflitti in nome di un’astratta “comune umanità”, che abbiamo ormai appreso a riconoscere nei loro fondamenti eurocentrici, maschilisti e colonialisti. Insieme, piuttosto, «ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce» (§.8).
Fraternità e politica
E vengo, come anticipato, al terzo capitolo dell’enciclica. A un paio di paragrafi soltanto, per la precisione. Che piuttosto sorprendentemente, pare a me, in una lettera papale, incorporano il linguaggio della politica moderna, quello della triade rivoluzionaria libertà-uguaglianza-fraternità. E lo fanno, sorpresa nella sorpresa, se così si può dire, con un’argomentazione di fondo strettamente analoga a quella che da tempo ha sviluppato il filosofo e sociologo (non credente) Edgar Morin, dapprima in Terra patria, nel 1993, e poi in altri scritti, fino al recentissimo La fraternità, perché? (Morin, 2019), nel quale insiste in particolare sulla rilevanza politica delle «oasi di fraternità» concretamente esistenti.
In breve (e tutto d’un fiato, con una semplificazione drastica): la cultura politica democratica, pur derivando da quella triade, ha tratto la sua forza fondamentalmente dai soli primi due termini, che fanno la differenza, e insieme la dialettica, fra orientamenti liberali e socialisti; ma questa diade ha perduto da tempo la sua capacità egemonica (da cui il successo delle nuove destre, non a caso variamente ‘comunitariste’, in senso etnocentrico, populista, nazionalista o razzista), e questa capacità può trovare nuova immaginazione ‘propulsiva’ solo a partire dal polo fraternità della triade ‘canonica’, ovvero dalla cura del concreto legame fraterno quotidiano come sfida politica prioritaria (non, dunque, dalla cultura del welfare prevalente, associata a un’idea anonimizzante, ‘biopolitica’, della vita umana, figlia del diritto all’uguaglianza più che dell’attenzione alla fraternità: istituzionalizzazione dell’amore del prossimo, la definiva Illich).
Un’argomentazione per molti aspetti analoga si trova nei paragrafi centrali del terzo capitolo della Fratelli tutti. Si leggano i brani seguenti, dove l’analogia mi pare abbastanza evidente da non richiedere sottolineature, salvo quelle che ho inserito mettendo in grassetto alcune espressioni:
«La fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. […] La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine…» (§. 103).
«Neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che ‘tutti gli esseri umani sono uguali’, bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità» (§.104).
A molti credenti tradizionalisti questa analogia potrà apparire come una ‘caduta’ di Papa Bergoglio fuori dall’ambito religioso. A molti non credenti potrà apparire come un tentativo più o meno subdolo di egemonia cattolica. Personalmente, con negli occhi sempre la fragile forza di quell’immagine del 27 marzo, vedo in questi passi dell’enciclica un gesto di condivisione profonda della tragedia del Politico, ovvero della crisi drammatica del tentativo più alto e nobile realizzato dai Moderni (credenti, non credenti, diversamente credenti) per portare nelle vicende umane un principio di autogoverno, dopo la nicciana morte di Dio. Un tentativo oggi in caduta libera, al quale sta subentrando il fascino semplificatore del mito Tecnica (non della tecnica reale, si badi, che fa tutt’uno con la definizione stessa dell’umano, ma della sua collocazione mitizzante nello stesso luogo sovra-umano lasciato vuoto dal Dio che è morto).
Fraternità come destino
Due abitudini di pensiero (almeno), radicate nel senso comune moderno-occidentale, si frappongono alla comprensione dell’intreccio Fraterno/Politico schematizzato sopra: un’abitudine cognitiva antropocentrica, che conduce a pensare l’umano come un’eccezione, nella lunga storia del vivente, in quanto libero dai lacci del bios; e un’abitudine morale che chiamerei angelistica, o in chiave laica utopistica, per la quale la ‘vera vita’ sgorga da un qualche altrove idealizzato, al quale votarsi per bonificare, a sorvolo, l’impuro presente (ricevendo le facili critiche dei “realisti”). Due abitudini che convergono nel pensare la fraternità come mera opzione di valore soggettiva.
Ma a contraddire queste abitudini di pensiero è precisamente, pare a me, la nozione francescana di fraternità, che ispira le pagine dell’enciclica. Il Cantico delle Creature, e la vita stessa del santo d’Assisi, configurano una nozione di fraternità intesa (a) come relazione tra viventi prima che tra umani (tema dell’enciclica ‘gemella’ Laudato si’), e (b) come relazione la cui ‘vera vita’, in ambito umano, non ha debiti in sospeso con il mondo come dovrebbe essere, ma abita attivamente il mondo com’è, il concreto farsi ‘creaturale’ dei processi relazionali in atto, inseparabilmente nel bene come nel male – le lodi di San Francesco non sono forse rivolte al mondo creaturale come gli appare immediatamente?
In altre parole – questa almeno l’interpretazione che assumo in queste brevi note –, la relazione di fraternità è tutt’altro che rara, nell’insieme del vivente. Lo attraversa al contrario per intero, da sempre. Variamente intrecciata, s’intende, alla relazione genitori-figli, da essa distinta e ad essa complementare: poiché va da sé che si è fratelli (fratelli/sorelle) soltanto in relazione a un principio generativo comune (qual è infatti il mi’ Signore del Cantico). Il vivente, umani inclusi, continua a essere vivente, generazione dopo generazione, nel complesso pluriverso di forme in cui continua a esserlo (Manghi, 2020), a seconda della misura e dei modi nei quali ogni generazione riesce a ricostruire e reinventare condizioni cooperative capaci di ereditare dalla generazione precedente e di rendere possibile la generazione successiva.
In una formula: la relazione di fraternità non è una possibilità fra altre, ma un vincolo inaggirabile. Un destino, se vogliamo, nel senso stoico del termine: fonte di malessere e di violenza, dunque, se misconosciuto, di forza vitale se accolto – di gioia, anzitutto, se stiamo all’esperienza francescana, come puntualmente richiamato all’inizio della Fratelli tutti (§.2).
Le violenze e le ingiustizie immani che lacerano dolorosamente il tessuto quotidiano delle nostre esistenze e coesistenze non sono la confutazione di questa formula ‘destinale’, ma piuttosto la misura drammatica di quanto arduo sia, nell’aggrovigliata ecologia delle relazioni umane, prendersi cura politicamente delle relazioni fraterne in atto, senza rifugiarsi negli angelismi e senza fondarle su esclusioni e capri espiatori. Cercando di distillarne generatività invece che distruttività. Apertura al confronto con l’alterità. E gioia dell’incontro, naturalmente.
Leggi anche: Dialogo sulla lettera ‘Fratelli tutti’; La fraternità necessaria e il bivio della cura di Marco Ingrosso;
Manghi S. (2020), Complessità, in O. Aime et al., a cura di, Nuovo dizionario teologico interdisciplinare, Edizioni Dehoniane, Bologna, pp. 3o8-313.
Morin E. (2019), La fraternité, purquoi?, Actes du Sud, Paris (trad. it. La fraternità, perché ?, AVE, Roma, 2020. Prefazione di L. Ciotti, Postfazione di S. Manghi).
La gioia dell’ incontro potrebbe essere il vero senso di rinascita , del singolo individuo , come di un intera società. Che questa gioia pare averla data per scontata o addirittura averla fraintesa . Complimenti al Prof. Sergio Manghi . Grande sociologo e grande Maestro .