Trascendenza e frasororità
di Carla Mantelli
Verso la fine dell’Enciclica ‘Fratelli tutti’ Francesco sostiene che «senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità» (n.272); e ancora, citando Giovanni Paolo II: «Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste alcun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini (…). La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile…» (n.273).
Ma questa trascendenza ha a che fare con le religioni? Non necessariamente, penso io. Non penso sia corretto stabilire un’equivalenza tra ‘apertura alla trascendenza’ e ‘appartenenza a una religione’, come se la seconda espressione sia presupposto e garanzia della prima. Come se un mondo ‘secolarizzato’ fosse destinato a escludere la fraternità – o forse sarebbe meglio dire la ‘frasororità’ – dall’orizzonte.
Anche perché sappiamo bene che dalle religioni scaturisce, ed è scaturito, amore verso il prossimo, solidarietà, lotta per la giustizia ma anche oppressione, sopraffazione, violenza.
E infatti la parabola del buon samaritano[i] che costituisce il cuore dell’Enciclica (nn. 56-86) non nomina Dio e rappresenta assai negativamente le persone religiose. Impostazione simile la troviamo nel vangelo di Matteo[ii] quando si narra in base a che cosa saremo giudicati al ‘dunque’ della nostra vita: non dal numero delle pratiche religiose ma dall’avere o meno dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, accolto lo straniero, vestito l’ignudo, curato l’ammalato e visitato il carcerato.
Cosa c’è di ‘religioso’ nel samaritano che si prende cura di un poveraccio aggredito da malviventi con l’aiuto – a pagamento – di un oste? Né il samaritano né l’oste invocano l’aiuto di Dio, non chiedono consiglio a qualche personalità religiosa, non dichiarano di agire in base alla loro fede. Di contro, il sacerdote e il levita, persone evidentemente molto religiose, sono probabilmente troppo preoccupati di qualche regola religiosa per toccare quell’uomo ferito, oppure ritengono di avere esaurito i loro doveri nelle liturgie del Tempio.
Forse riconoscere quella ‘verità trascendente’ cui allude Francesco, significa riconoscere che nessuna persona è solo ciò che è, nessuno è solo ciò che risulta evidente ai nostri sensi. Noi infatti possiamo intuire che ogni persona porta traccia di un ‘oltre’ e che quindi è un mistero di fronte a cui stupirsi e inchinarsi, da contemplare e da amare. Solo riconoscendo questo ‘oltre’ possiamo scegliere l’umiltà e non l’arroganza, la cura e non lo sfruttamento, la custodia e non il possesso, possiamo vivere la ‘frasororità’. La grandezza umana sta tutta lì anche se siamo abituati a pensare il contrario. Siamo più di ciò che siamo ed è per questo che dobbiamo trattarci con delicatezza, rispetto e stupore. Per riconoscere questo ‘oltre’ che ci fa più di un ammasso di muscoli, ossa e nervi è necessario riconoscere di essere creature di Dio? È indispensabile professare una fede che concepisce la Divinità come radice di ogni solidarietà umana? Non credo. Forse può essere sufficiente guardare dentro noi stessi scoprendo l’abisso che ci abita da cui può emergere amore, compassione e capacità di dono e a volte paura, odio, volontà di dominio. Un abisso di miseria e fragilità che però sempre si accompagna a sogni e aspirazioni di gioia e bellezza.
Non so se sia corretto scomodare Pascal ma mi ha sempre affascinato la descrizione impietosa che il grande scienziato e filosofo fa della impenetrabilità della condizione umana: «L’uomo è a se stesso il più prodigioso oggetto della natura, perché non può intendere che cosa sia la corporeità e ancora meno cosa sia lo spirito, e meno di tutte come un corpo possa essere unito allo spirito. È la più ardua delle difficoltà e, nondimeno, è il suo proprio essere».[iii]
Qui sta la vera trascendenza e questa consapevolezza richiede anche di relativizzare le religioni che sono fenomeni storici tutt’altro che trascendenti. Con le loro parole cercano di nominare Dio, con i loro riti anelano a una relazione con la Santa Sapienza, con le loro regole tentano di fare la Sua volontà. Possono certo aiutare ad aprirsi alla ‘trascendente dignità della persona umana’. Per moltissime persone la crescita in una comunità religiosa ha significato proprio scoprire ‘l’oltre’ che abita l’essere umano, imparare a vedere e servire la sua altissima dignità che è presente sempre, indipendentemente dalla condizione sociale, dal sesso di appartenenza, dal colore della pelle. Ma è successo e succede che le parole, i riti e le norme religiose finiscano per ingabbiare la Divinità e ridurla a qualcosa che si può definire e dominare, a qualcosa da usare per giudicare e opprimere. Quante volte le religioni hanno ridotto Dio a un idolo, alla proiezione dei desideri umani di potere e dominio![iv]
Riguardo alla possibilità di vivere nel mondo come fratelli e sorelle, l’appartenenza alle religioni può essere un ‘luogo’ privilegiato ma non costituisce una garanzia.
E forse non è un caso che nella fede cristiana Dio si riveli in un essere umano perseguitato, umiliato e ucciso in nome di leggi religiose e calcoli politici. Il Crocifisso rivela che cosa è la ‘verità trascendente’: un essere umano che soffre e che ci chiama alla compassione, ci spinge a inginocchiarci per curarne le ferite. È lì che si incontra Dio.
Si può partire dalla fede in Dio per considerare ogni persona nostra sorella, ma si può anche partire dallo sguardo aperto sull’essere umano per giungere al Santo Mistero: «Chi non ama non ha conosciuto Dio perché Dio è amore»[v]. Si può amare perché si è conosciuto Dio, ma certamente si conosce Dio se si ama.
Nella ‘Fratelli tutti’ il vescovo di Roma si rivolge non solo alle comunità cristiane e non solo alle altre comunità religiose, ma a ‘tutte le persone di buona volontà’ (n. 6). È convinto che coltivare concretamente il sogno dell’amicizia sociale, della civiltà dell’amore, sia alla portata di tutti, indipendentemente dalla fede religiosa: si tratta ‘solo’ di non girare lo sguardo di fronte al dolore di chi subisce violenza, al grido di chi è vittima dell’ingiustizia, alla disperazione degli “scarti” delle società dell’opulenza.
Carla Mantelli è Insegnante di Religione Cattolica al liceo delle Scienze Umane Albertina Sanvitale di Parma e curatrice del blog nel sito www.insegnarereligione.it
[i] Luca 10,25-37.
[ii] Matteo 25,31-46.
[iii] B. Pascal, Pensieri, n.223, Mondadori, Milano 1980.
[iv] Su questo argomento rimando a un testo illuminante: Elizabeth Johnson, Colei che è. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, Queriniana, Brescia 1999.
[v] 1 Giovanni 4,8 (citato da Francesco al n. 283 dell’Enciclica “Fratelli Tutti”).
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