Swing di mezzanotte: i poeti, l’infanzia e il cardamomo
di Giusy Diquattro
Intercultura in ‘zona rossa’
L’odore di arance e cannella, di anice e noce moscata impregna l’aria, il vin brulé nelle tazze spaiate, le caldarroste sul tavolo; i plaid all’uncinetto di lana poggiati sui braccioli di vecchie poltrone, sul tappeto un gatto sornione e annoiato. Quasi le nove di sera, riuniti in un antico casale poco lontano dalla città. Ciascuno ha portato qualcosa: biscotti di datteri e mandorle, cantuccini e vin santo, frutta secca e olive, formaggi e mostarde e un immancabile panettone; tutto il necessario per tirar fino a tardi. Niente di tutto questo, era bello pensarlo, piuttosto una riunione tra amici su piattaforma digitale. L’atmosfera poteva però ricordare quelle serate intime di storie davanti ad un fuoco. È iniziata così, un po’ per gioco, un po’ per il piacere di ritrovarsi, un incontro a tema sulle letture che hanno segnato l’infanzia, un amarcord di canzoni, film e angoli di crescita e svago.
Dopo diversi mesi in cui il nostro gruppo[1] si è dato appuntamento sul tema della mediazione culturale, un gruppo composito ed eterogeneo per provenienze ed esperienze, abbiamo deciso d’inaugurare dicembre e le feste natalizie con i nostri ricordi. Ci siamo collegati, ma non siamo al completo, gli impegni si incrociano anche online e a qualsiasi ora. Lorenzo ha alle spalle una libreria disordinata e vitale che lo avvolge, la sua voce ha un accento toscano che già promette ed è un viaggio tra i fumetti della scuderia Bonelli: Tex, Black Macigno, il Comandante Mark, letture furtive, “robaccia” da non frequentare. Poi arrivano le passioni che accompagnano l’adolescenza, la maturità: l’Enciclopedia del rock, Calvino, Palomar e i suoi silenzi. Palomar sarà la nota di fondo, quella fragranza legnosa che sosterà nei non detti di molti di noi. Palomar che si morde la lingua, che pensa prima di parlare, che vorrebbe fare domande, che porta lontano dai percorsi sicuri. E la strada comincia a farsi accidentata e impervia, si profilano curve, anfratti e burroni. Francesco ricorda gli sceneggiati della Rai, il bianco e nero di un’Italia riservata e che vuole farsi una cultura, educata e moralista, dai Fratelli Karamanzov ai Promessi sposi. L’attenzione si posa tuttavia su Lo strano caso del dott. Jekyll e di Mr. Hyde, e qualcosa inizia a vacillare. Jekyll e Hyde, quel bene e male che da piccoli avevamo chiari, che sapevamo distinguere in bello e brutto, buono e cattivo, e tagliare in maniera netta come si fa con una fetta di torta, nel tempo li abbiamo incontrati, non più isolati e a sé, ma abbracciati e compromessi, ne abbiamo fatto esperienza e ravvisato i loro fumi di vapore e fuliggine anche nelle nostre vite. Sappiamo che quel veleno e quelle pozioni non sempre abitano i laboratori di qualche scienziato folle, ma stanno assestati e oscuri nel nostro sottoscala; li abbiamo rimossi e rinfacciati a chi in qualche modo ce li ricordava a nostra insaputa. Qualche volta li abbiamo riconosciuti e accettati, allora siamo stati a un passo dal non giudicare più.
Gli sceneggiati si seguono anche a casa mia, ma i miei ricordi vanno alla Conquista del west, a ZebMacahan, al mito della frontiera, alla Casa nella prateria, ma soprattutto ad una musica, al swing di Glenn Miller, a quei passi dondolati con mio papà la domenica mentre cucinava il roastbeef, a Chattanooga ChooChoo, ad un treno che corre veloce da New York alla Carolina…“Lalala…Pardon me, boy, isthat the Chattanooga ChooChoo…”, faceva più o meno così.Ci sono anche i giorni feriali, i pomeriggi in cui si cerca una fuga oltre i vetri; un’antica edizione di Pattini d’argento accompagna la mia terza elementare, sono pagine in cui rifugiarsi dopo le punture di penicillina per una tonsillite che non passa. L’Olanda di Hans e Gretel e il sogno di una gara rendono sopportabile quella cura. Quegli anni sono scivolati in uno “shuffle”, a volte si condensano nella faccia di Eduardo, quando il teatro era anche in tv, nelle sue pause amare e rassegnate, a volte nella voce di Monica Vitti, ironica e vitale.
Prendiamo il largo, siamo sulle coste adriatiche, poi ci addentriamo verso Tirana, quell’altra Europa di cui nessuno parla. Mi trovo in un banco di nebbia, mi accorgo di non avere molti appigli nella memoria per immaginare strade, luci, insegne, una città. Di questa Illiria, né slava né latina, quanto poco sappiamo. I ricordi di Vojsavahanno la dolcezza dei racconti del padre, della bella tessitrice delle notti, Shahrazāde. E come Shahrazāde sembra che Vojsava abbia scelto le parole per resistere ad un regime che ha compresso l’infanzia e la gioventù, che non ha lasciato scegliere o sbagliare, perché la strada era segnata, uguale per tutti. Poi i poeti, quelli che le parole le capovolgono, Ismail Kadare:
Ca pika shiuranëmbiqelq.
Përtyunëbefasndjevamall.
[…]
Un paio di gocce di pioggia caddero
sul vetro,
per te improvvisamente sentivo la mancanza.
[…]
Improvvisamente i versi di Kadare risuonano malinconici ed essenziali in lingua albanese, Vojsava li legge, li recita, forse li prega… è chiaro, nessuno di noi ha capito, ma il senso è implicito per tutti, c’è l’uomo. Dalle costeorientali d’Europa la nave approda a Beirut. Kassida è tornata da poco. Il tono è calmo, le parole pesate. La città è stata sventrata, l’estate l’ha bruciata in un falò di follia, i vetri rotti brillano ancora come diamanti di sangue. Beirut di nuovo sotto assedio, braccata dai profughi, dalla corruzione, dalla bellezza come una maledizione. Il racconto apre le porte di casa: l’immensa libreria, il salotto letterario della mamma, i poeti arabi, divinità capaci di parole contrarie quando il resto di quel mondo subiva la censura. Beirut sotto le bombe, Beirut da abbandonare. Beirut e il “cielo che si abbassa come un tetto di cemento che crolla”[2], Beirut che manca come l’odore del caffè, al coriandolo, per le padrone di casa che non tengono in ordine la cucina, al retrogusto di carruba per la mano avara, al cardamomo per gli arricchiti[3].
Si torna a Bologna, Gianluca ricorda le sue letture di formazione, tardive, giovanili, come frutti autunnali. La sua testa è appoggiata al braccio che fa da cuscino, il ricordo di Pasolini disegna sul viso una postura politica e poetica, la consapevolezza che le parole sferzanti della voce più controversa del Novecento italiano hanno lasciato una traccia, un modo di essere. Un anticonformismo necessario quando a vent’anni cerchi dei maestri, non solo nel “Caravaggio” di un nuovo vangelo, ma anche nelle canzoni di Gaber o nella notte di Celine. Sento una forte risonanza e da quel poco che so di Gianluca non mi stupisco, ognuno è frutto anche delle proprie letture. A vent’anni quella postura per me si era innervata nelle canzoni di De Gregori; Pasolini, l’America e la passione civile erano passati dalla sua voce.
Il viaggio continua con Ulisse, Cristina è in cucina, sullo sfondo un frigo colorato con gli avvisi da non dimenticare. Siamo già nella sua cameretta, nella casa dell’infanzia a Bologna, negli anni in cui si stava ricostruendo l’Italia e la fiducia dei nostri giovani genitori non trovava ostacoli, l’emancipazione sociale per sé e per i figli era un orizzonte aperto. Lei ha sei anni e la mamma le legge l’Odissea, è una buona abitudine pomeridiana per non svegliare il papà che riposa un po’ prima di tornare a lavoro. Omero, cieco e visionario, la conduce tra mille pericoli, avventure e scoperte… potere della lettura ad alta voce, piacere di chi ascolta e ha solo il dovere di lasciarsi andare tra tempeste e bonacce, ciclopi e sirene.
Basta un tappeto volante per arrivare a Baghdad, Adel sterza contro mano. Siamo lì in attesa di perderci e naufragare nei mari di Sindbād, ma il tono ironico e leggero lascia il posto ad una discesa sconnessa nei sentieri rocciosi della memoria, alle strade di una città dove non si è più tornati e che non è più come allora. Immagino delle rose, dei vasi di menta, qualcuno che sa prendersene cura e la stanza dello zio, con le sue pile di libri di politica e libertà; lo zio che discute, agita le mani e s’infervora in discorsi che prendono vita da quelle pagine, da un aria pesante che condiziona le vite, le gela e ne cambia gli assetti, per sempre. La sorella più grande colleziona altre letture: i russi, i francesi, ma anche autori italiani, Silone, Moravia, Gramsci. Allora è bello rubare qualche volume e poi riporlo sullo scaffale senza farsene accorgere. Alcuni sono oggetti rari, comprati di contrabbando, incursioni nell’Occidente, nella “modernità”, in un modello difficile da seguire e da rifiutare allo stesso tempo. Arrivano poi le scoperte personali. L’adolescenza è legata a due riviste, una illustrata da diversi artisti iracheni di allora e dall’indirizzo impegnato, Majalati(“Lamia rivista”), l’altra Al-Arabi, rivista di cultura generale pubblicata in Kuwait e diffusa in tutto il mondo arabo. Gli anni Ottanta, la guerra con l’Iran e il regime di Saddam Hussein decidono per un’intera generazione di giovani studenti: lasciare il paese è la scelta da fare per disegnare un futuro. Un taccuino con i versi di Mudhafar Al-Nawab, Adel li ha ricopiati a mano nei giorni che precedono la partenza, sono versi da nascondere, in aeroporto i controlli sono puntuali, per fortuna passano inosservati:
Ancora una volta sulla nostra finestra piangi
e nient’altro che il vento
e perle di ghiaccio… sul cuore
مرة أخرى على شباكنا تبكي
ولا شيء سوى الريح
وحبات من الثلج.. على القلب
Ci lasciamo con auguri e saluti affettuosi. Vado a dormire, si è fatto tardi, il silenzio di Palomar mi interroga, lui e le sue domande scomode. Il banco di nebbia ricompare, sembra dividere un noi da un loro; noi gli italiani, gli autoctoni, e loro, gli altri, gli stranieri. Strano per un gruppo di lavoro sulla mediazione culturale. Sembrava tutto così semplice. Osservo dall’angolo del cuscino un pensiero obliquo, lo lascio fluire e ascolto i versi muti sul taccuino di Adel, le bombe di Kassida, il “mall”, “la mancanza” di Vojsava. Si apre un varco, inizio a capire che c’è una zona franca da attraversare, un confine su cui negoziare nuvole di incomunicabilità. È innegabile che nei loro ricordi lo sfondo politico si faccia sentire, alzi la voce, sia prepotente, abbia tutti i nomi e le declinazioni delle dittature, dei soprusi, delle guerre con assedi, profughi, vincitori e vinti. Dall’altra parte vedo Lorenzo, Francesco, Gianluca, Cristina. Sullo sfondo l’Italia degli anni di piombo, del sequestro Moro, dei delitti eccellenti di mafia. Lontana, sfocata, quell’Italia è rimasta in silenzio, una sorta di rimozione. Come se nelle storie degli “altri” quella rimozione abbia trovato uno schermo su cui proiettare le “nostre” immagini rimaste in negativo, le nostre inquietudini accennate e soffocate. I nostri racconti, di noi italiani, raramente durante la serata hanno assunto una dimensione pubblica, sociale, politica. Il nostro privato non è stato invaso e scosso a tal punto da non lasciarci una scelta.
La navigazione nei mari dell’infanzia e dei vent’anni ha lasciato silenzi sommersi come terre inesplorate, sono affiorati ricordi come atolli, ma quanti non detti nelle attese al ribasso degli “altri”, e nelle nostre, con altri orizzonti, forse più provinciali. Abbiamo percepito le nostre storie un po’ più piccole, domestiche, abbiamo guardato alle vite dei nostri amici stranieri come vite “aumentate”, dove c’è un di più, che va oltre le aspirazioni individuali, dove è più forte il senso di un progetto comune. Mi addormento con la sensazione di avere riscritto qualcosa del mio passato, che a quell’infanzia e ai vent’anni sia riuscita ad aggiungere nuovi significati, di non essere più sola sul treno del swing per chissà dove, che ad ogni fermata sia salito qualcuno e abbia lasciato qualcosa di sé. Anche il passato in fondo può cambiare.
Sono trascorsi pochi giorni, ma Shahrazāde continua a tessere storie, mi visita nelle mail, nei messaggi, vuole raccontare ancora. Altre storie mi giungono da Damasco, dalla Siria di Lilya. Quella sera lei era impegnata, ma adesso vuole aggiungere i suoi ricordi. Come un torrente mi travolge fresco e a fiotti, la memoria dei suk, di un modo diverso di vendere e contrattare, dei cortili nascosti dalle mura di argilla, alte e impenetrabili delle antiche magioni damascene, della casa dei suoceri nel quartiere di Al Malki,delle automobili vecchie e fuori moda. Damasco, dopo Beirut, diventa la città del cuore, di un’esperienza di lavoro importante alla Radio Televisione Siriana, settore internazionale. Sono gli anni in cui Lilya ha lasciato il Libano a causa della guerra e a Damasco inventa nuove abitudini, scopre il femminismo laico delle donne arabe, ma anche quello delle donne credenti e praticanti, la bellezza della lingua araba e l’arte della calligrafia, le vie dei librai e i versi di Nizar Qabbani, il poeta che plasmò l’immaginario di un’intera generazione, una raccolta che l’ha seguita trasloco dopo trasloco:
Poesia della tristezza[4]
[…]
Il tuo amore mi ha insegnato
come la notte amplifica la tristezza degli stranieri,
mi ha insegnato a guardare Beirut
come una donna crudelmente seducente,
una donna che ogni sera indossa i suoi vestiti più belli
e cosparge i suoi seni con fragranze e profumi
per i marinai e per gli emiri.
Il tuo amore mi ha insegnato
come piangere senza lacrime,
mi ha insegnato a guardare la tristezza addormentarsi
come un ragazzo senza piedi
nelle strade Rau’sheh e Hamrah.
[…]
[1]Il gruppo di riflessione su“La mediazione interculturale: idee per un rinnovamento” si è costituito nella primavera del 2019, coordinato da AdelJabbar, sociologo e saggista nell’ambito degli studi interculturali. Il gruppo si avvale della partecipazione di persone eterogenee sia per formazione, ambito lavorativo e provenienza: Lorenzo Luatti, ricercatore dei processi migratori e delle relazioni interculturali presso Oxfam Italia;KassidaKhairallah, mediatrice culturale per molti anni, attualmentecase managerdelle famiglie migrantipresso la Compagnia San Paolo per il Progetto ex-MOI di Torino;LilyaHamadi, mediatrice culturale in carcere e all’interno dei servizi sociali, responsabile settoreImmigrazione poi Intercultura di Arci Modena;VojsavaTahiraji, coordinatrice del servizio di mediazione interculturale per la Cooperativa Mediagroup 98e formatrice per diversi enti della provincia di Parma;Cristina Calzolari,fondatrice della Cooperativa Progetto Integrazione di Milano;AmalElMraki,mediatrice culturale, tutor corso per mediatori interculturali SFEP per la Città di Torino ed esperta in Cooperazione Internazionale e allo Sviluppo; Simona Ciobanu, mediatrice culturale e coordinatrice della Cooperativa Terra Mia di Ravenna;Gianluca Gabrielli, insegnante di scuola elementare a Bologna e storico del razzismo;Giusy Diquattro, insegnante di Lettere e raccoglitrice di storie di migrazione per il Centro Interculturale di Torino; Francesco Gianola Bazzini, mediatore in ambito giuridico, consigliere del Centro Interdipartimentale Ricerca Sociale dell’Università di Parma, studioso di Sociologia delle religioni e dell’Islam politico moderno; Samia Makhloufi, laureata in Lingue e letterature straniere, attualmente si occupa di traduzione di testi arabi per l’infanzia.
[2]M. Darwish, Una trilogia palestinese, Feltrinelli, Milano 2014, p. 147.
[3]Cfr. M. Darwish, Una trilogia palestinese, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 154,155.
[4]NizarQabbani,Le mie poesie più belle, a cura di NabilSalameh e Silvia Moresi, Jouvence, Milano 2016, p. 33.
Giusy Diquattroè nata a Ragusa. Laureata in Filosofia presso l’Università di Pisa con Remo Bodei sul concetto di Conversione in Agostino, nel 2000 vince una borsa di studio presso l’Università di Bucarest sul Diario della felicità di Nicolae Steinhardt, nel 2005 consegue il perfezionamento in Comunicazione e MediazioneInterculturale presso l’Università di Torino. Dal 2000 vive a Torino, dove insegna Lettere. È raccoglitrice di storie di migrazione per il Centro Interculturale, con cui ha pubblicato Victoryat the end in Il cibo in valigia (2015)e Nora Moskora in Andata e ritorno. Percorsi tra genitori e figli, ANANKE lab (2018). Alcune sue poesie sono state inserite nelle seguenti antologie: Enciclopedia di PoesiaItaliana, vol. 8/2017, Fondazione Mario Luzi Editore (2018); Prosa poesia per la pace, Africa Solidarietà Edizioni (2019); Poesie per Dio. Quasi una preghiera, Edizioni La Zisa (2019); Un paio di scarpette rosse, Kanaga Edizioni (2019), Canti per la pace, Africa Solidarietà Edizioni (2020).
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Mi associo ai vostri preziosi commenti con una doverosa sottolineatura. Ringrazio Alessandro la cui amicizia e reciproca stima è un pilastro di questa nostra preziosa iniziativa. Io nulla posso sulla tecnologia informatica o perlomeno molto poco. Ma è ai nostri giovani ragazzi che dobbiamo tanto. C’è una persona in particolare che ringrazio di cuore; Samuele Trasforini, sempre disponibile in tutte le circostanze a rimediare ai piccoli errori che possiamo incontrare nel nostro percorso sempre più ricco di autorevoli contributi.
Grazie Samuele
Francesco
Ho creduto che l’articolo di Giusi Diquattro fosse il primo del 2021 mentre mi accorgo che è l’ultimo del 2020. Me ne scuso con l’Autrice e con la Redazione. A parte questo errore, per il resto il mio commento rimane immutato.
AB
Gentile prof. Bosi, una piccola distrazione, poco importante. Piuttosto colgo l’occasione per ringraziare Prospettiva per avere aperto spazi di riflessione a voci dalle diverse sensibilita’ e cromature. Un augurio affettuoso di Buon anno a tutta la redazione.
Giusy Diquattro
Un articolo migliore per iniziare il nuovo anno di Prospettiva è difficile immaginare.
Ringrazio Giusy Diquattro per la collaborazione che garantisce al nostro lavoro e di cui abbiamo sempre apprezzato la qualità. Di questo articolo, credo che non dovremmo soltanto gustare la fine qualità letteraria, ma anche l’insegnamento che viene dal lavoro del gruppo ideato dal caro amico Adel Jabbar: le storie, i racconti, i viaggi, gli incontri interculturali sono il nutrimento per contrastare il processo di desertificazione delle relazioni umane che intravediamo e che ci preoccupa.
Che Francesco Gianola Bazzini, redattore di Prospettiva, sia protagonista di questa iniziativa, ci fa ben sperare che altri contributi di questo tipo potremo leggere in futuro.
Alessandro Bosi