Quattro Vie per un nuovo “Patto per la Salute”. Riflessioni a partire dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
di Marco Ingrosso1
Davanti al Covid: non solo sanità, ma anche socialità
Molte voci si sono levate nel corso di questa pandemia per sottolineare la rilevanza dei servizi territoriali di tipo sanitario (ossia le cure primarie) nell’affrontare l’evento Covid-19 e la necessaria sinergia fra intervento ospedaliero e intervento territoriale. Misure straordinarie come le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) sono state messe in atto per raggiungere e curare le persone a domicilio.
Anche nel piano vaccinazioni, gli ambulatori dei Medici di Medicina Generale e le Case della salute sono stati chiamati in causa come luogo di primo intervento e di maggiore vicinanza rispetto alla popolazione (anche se non in tutti i casi questi luoghi sono adatti a questo compito).
Si è altresì sostenuto, a ragione, che i Sistemi Sanitari Regionali che avevano la migliore dotazione di cure primarie hanno risposto meglio a questa evenienza, contrariamente a chi aveva privilegiato solo gli ospedali.
Noto tuttavia che molto meno si è parlato dell’attività di vicinanza e sostegno alla popolazione più debole che il servizio sociale, i servizi domiciliari e quelli di salute mentale hanno svolto in questo frangente, pur nelle difficili e nuove condizioni in cui si sono trovati. Questo sostegno si è esplicato, almeno in parte, nonostante che le disposizioni sul distanziamento – resosi necessarie in ragione della forte infettività del Covid – siano state scarsamente coniugate con la considerazione delle esigenze di sostegno, cura, comunicazione che erano necessarie alle persone ricoverate in ambiente ospedaliero e nelle RSA, o anche a quelle isolate nel proprio domicilio. Esigenze che, ricordiamolo, hanno una significativa incidenza sulla qualità di vita, ma anche sulla sopravvivenza delle persone, per non parlare del rispetto della dignità e umanità. Credo che abbiamo pagato un grosso prezzo a causa di questa mancanza di visione, ossia di concezione integrata della salute!
Una delle lezioni da apprendere da questo evento pandemico è la necessità di essere preparati a tenere insieme le due dimensioni, anche con interventi appositi e straordinari come la comunicazione a distanza, ma soprattutto come modalità ordinaria di cura in cui gli aspetti terapeutici e quelli relazionali devono sempre essere compresenti.
Il PNRR: espansione quantitativa della sanità o nuovo Patto per la salute?
In questa sede, tuttavia, non vorrei soffermarmi tanto su quello che abbiamo vissuto nell’ultimo anno, ma piuttosto sulle prospettive che abbiamo davanti. Mi sembra che il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) in discussione in questo periodo segni una svolta, nel senso che si propone di investire in modo rilevante per una riforma di tutta l’area dei servizi territoriali: in particolare nel piano approvato prima della crisi del Governo Conte II si parlava di 19,72 mld per la salute e 27,62 per l’inclusione e la coesione. Diverse voci critiche hanno parlato di insufficienza della prima cifra, ma credo che anche la seconda debba essere considerata se vogliamo andare verso un sistema integrato socio-sanitario come da tempo si propone.
Provo a leggere nelle tabelle e vedo che alla voce M6C1 si parla di ‘Assistenza di prossimità e telemedicina’. I capitoli che articolano questa tabella sono: ‘Casa della Comunità e presa in carico della persona’, ‘Casa come primo luogo di cura. Assistenza domiciliare’, ‘Sviluppo delle cure intermedie’. Segue poi la voce M6C2 che parla di ‘Innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria’. Vi è inoltre una piccola voce (in termini quantitativi) denominata ‘Salute, Ambiente e Clima. Sanità pubblica ecologica’.
Se queste sono le voci enunciate, è necessario che ci si metta al lavoro per definire che tipo di ‘Casa della comunità’ vogliamo, quale modalità di ‘Assistenza di prossimità’ si vuole attuare, di quali innovazioni necessitano le cure domiciliari, le cure intermedie, la telemedicina. È su questo che vorrei avanzare qualche proposta in questa sede.
Su questi temi negli ultimi mesi stanno fiorendo diverse proposte: alcune di taglio sociale e comunitario (come quelle del movimento ‘Prima la comunità’), altre di tipo tecnologico (digitalizzazione della medicina in primis), altre ancora legate alla valorizzazione di specifiche professionalità (mediche o infermieristiche in primis). In tutti i casi si richiede per un aumento quantitativo di addetti e risorse economiche disponibili, pensando che questo sia risolutivo, mentre alcune forze hanno già sviluppato una presa posizione contro l’una o l’altra ipotesi (penso in particolare alle Case della Comunità non viste di buon occhio da alcune sigle mediche).
Sicuramente abbiamo bisogno di un numero maggiore di addetti, tuttavia se si perde l’occasione di un ripensamento profondo di tutto l’ambito territoriale dopo decenni di blocco dell’innovazione e di continuo contenimento economico, rischiamo di perdere una occasione storica, ma anche di ritornare agli schemi riduzionistici centrati sulla spesa che solo pochi mesi or sono, nel periodo pre-Covid, avevano messo in discussione la sostenibilità economica ma anche quella sociale del SSN e del sistema di welfare.
È per questa ragione che si deve definire un ‘Patto per la Salute’ fra la popolazione, i professionisti e operatori, i manager, i rappresentanti dei cittadini basato sul maggior coinvolgimento delle persone e delle comunità nelle proprie cure e nel sistema delle cure, e, dall’altra, sull’ascolto della fatica e dell’insoddisfazione dei professionisti verso un ambiente di lavoro burocratizzato, eterodiretto, depersonalizzato. Dobbiamo ricucire le relazioni di cura da tutte e due le parti, e fornire nuovamente delle mete alte in una prospettiva di cure complesse e collaborative in cui ogni parte in causa trovi riconoscimento e valorizzazione. Si tratta di un vero cambio di paradigma e di ecologia delle cure, individuando nuove risorse collaborative, nuove dinamiche che vanno oltre le attuali procedure. Lo stato di eccezionalità del Covid ci ha insegnato che questo è possibile: molti muri sono stati varcati, nuove progettazioni sono state realizzate, nuove energie messe in campo. In particolare si è generata una nuova attesa collettiva verso il complesso socio-sanitario che non può andare delusa. Si tratta quindi di aprire un cantiere di idee, sperimentazioni, esperienze.
Quattro Vie da percorrere
Vorrei indicare Quattro Vie che possono portare a questo nuovo Patto per la salute da costruire, focalizzato su territori concepiti come comunità locali da ricucire e rigenerare. I quattro percorsi si rimandano e definiscono un orientamento, una cornice di riferimento, nonché delle strade per uno sviluppo culturalmente nuovo delle Case della salute/della comunità, capaci di diventare motori di reti comunitarie e riferimento partecipativo della popolazione residente in un ambito territoriale, in un quartiere. Queste vie iniziano tutte con la P è sono: Prossimità, Partecipazione, Produzione della cura, Promozione della salute.
PROSSIMITÀ. Con prossimità indichiamo il movimento di ‘andare verso’ qualcuno. I nostri servizi sia sociali sia sanitari operano normalmente con una modalità ‘di sportello’, erogano cioè una prestazione quando qualcuno va da loro, richiede qualcosa di cui ha diritto, coi tempi che il sistema decide o riesce a soddisfare. Vi è quindi un’azione di oggettivo scoraggiamento spazio-temporale (andare-attendere) e, secondo punto, nel migliore dei casi si dà una risposta che è prestazionale, specifica, delimitata. L’effetto è quindi quello di fornire meno risposte rispetto ai bisogni e risposte non complete, non complesse, ma piuttosto parziali, spesso insufficienti, per non parlare della dimensione qualitativa e relazionale della cura che diventa affrettata, incompiuta, insoddisfacente. Questo fenomeno è stato aggravato dalla crisi economica iniziata nel 2008 che ha portato a tempi di attesa più lunghi, LEA non soddisfatti, rilevanti diseguaglianze rispetto all’accesso alle cure, bisogni lasciati marcire, reti sociali sfilacciate e inesistenti. Bisogna invertire questo trend lavorando in un altro modo, appunto andando verso, diventando più prossimi, conoscendo meglio la realtà fine dei quartieri.
La prossimità segna però anche una opportunità, non solo per far meglio il lavoro sociale e sanitario, gettare delle reti più ampie per cogliere le situazioni che sfuggono ai servizi, ma anche per scoprire la risorsa del ‘far rete’, ossia di animare e ricucire spazi desertificati, di attivare delle risorse relazionali e di vicinato che non sarebbero altrimenti presenti. Vi sono già esperienze interessanti a Trieste (le Microaree), a Bologna e anche a Parma (Villa Ester) che vanno da subito incrementate in altre aree delle città. Vanno però anche raccordate con le Case della salute e le cure primarie, cosa che ora risulta difficile, anche perché queste non si pongono ancora nell’ottica della medicina d’iniziativa e di una collaborazione strutturata col settore sociale, sviluppando una sensibilità comune verso le reti sociali e la dimensione comunitaria. Questa Via implica quindi rilevanti innovazioni metodologiche e operative.
PARTECIPAZIONE. È il sentirsi parte, prender parte, responsabilizzarsi verso qualcosa che è sentito come bene collettivo e comune. Si dice che i processi partecipativi siano in crisi, ma sono in crisi perché incidono poco, sono scoraggiati da procedure molto burocratizzate miranti solo all’efficienza o all’assolvimento di requisiti formali. Si assiste ad una sorta di professionalizzazione forzata del volontariato perdendo parte della sua libertà d’iniziativa e della sua ricchezza umana, ma più in generale non c’è ascolto delle esigenze che si manifestano su un territorio. Immaginiamo invece una Casa della salute/della comunità in cui sia possibile discutere degli indirizzi, in cui sia possibile partecipare alla governance, in cui varie associazioni siano – appunto – associate a progetti comuni a favore della popolazione residente: ad es. assistenza alle fragilità, telemedicina, comunicazione sanitari-cittadini, promozione della salute. In cui magari sia possibile raccogliere anche risorse aggiuntive da parte del tessuto economico e sociale per svolgere progetti condivisi di tipo innovativo. La partecipazione a progetti comuni può diventare un momento di creatività dei professionisti, dei volontari, della popolazione residente associata ad una Casa e quindi costituire non un peso, ma una ulteriore risorsa che fluidifica le macchine organizzative socio-sanitarie e le porta a nuovi traguardi operativi.
PRODUZIONE DELLA CURA. Riguarda l’insieme di tutte le condizioni organizzative, tecniche e sociali che permettono di generare e rigenerare continuamente l’insieme delle cure necessarie per una popolazione. Gli aspetti tecnici e organizzativi sono importanti, ma al centro vi sono i rapporti collaborativi fra i vari professionisti, gli operatori e le reti informali, da una parte, e le relazioni di cura fra professionisti e persone in cura, dall’altra. La persona in cura (denominazione da preferire a quella di ‘paziente’), in questo caso, non è solo un destinatario della cura (e nemmeno una persona ‘al centro’ del lavoro degli altri), ma è un co-produttore della cura. Tali nuove modalità di co-produrre la cura implicano il coinvolgimento della persona in cura (engagement), ma anche una nuova capacità dei professionisti di stare nella relazione, di attivare dialogo e comunicazione, di adottare tutto un insieme di modalità ambientali e organizzative che permettano al soggetto che richiede aiuto di sentirsi parte del proprio percorso di cura, responsabilizzato del suo andamento, in grado di assumere decisioni fondamentali in modo congiunto coi curanti. Nel campo della salute mentale vi sono da tempo sperimentazioni sul budget di salute che vanno in questa direzione. Si devono quindi fare dei grossi passi avanti nel modo di rapportarsi reciproco, di collaborare, perché siamo in una fase in cui il soggetto richiede informazione, formazione, co-decisionalità. La mancata accoglienza di questa esigenza sentita da un’ampia fetta di popolazione produce fenomeni di sfiducia, diffidenza, incomprensione che possono alimentare la contrapposizione (che talvolta può sfociare in aggressività – in varie forme – e fuga nel complottismo, come emerso chiaramente durante il periodo Covid e non solo).
Accogliere questa istanza socialmente matura permette di attivare un’altra grossa opportunità: quella di una responsabilizzazione più diffusa del cittadino verso la ‘buona cura’, quella di ricucire un patto fiduciario fra curanti e curati. Dunque, bisogna ragionare di un diverso modo di formare le persone non solo alla salute ma alla cura, scoprendo, anche qui, una nuova risorsa che il soggetto può rappresentare per la cura di sé nel quotidiano e per il buon andamento della terapia quando necessario. Le cure primarie possono diventare battistrada e allenamento per permettere a molti di sperimentarsi co-produttori della cura, grazie alla specifica continuità assistenziale rappresentata dal medico della persona operante in un ambiente collaborativo e comunitario.
PROMOZIONE DELLA SALUTE. Anche il campo della promozione della salute può essere un investimento di una comunità che si dà un programma ampio, rivolto a diverse fasce d’età e di condizione sociale, per attivare non solo risorse terapeutiche e preventive, ma altresì generatrici di salute (salutogenetiche). Nei prossimi anni dovremmo lavorare sul disagio diffuso prodotto dal Covid, ma questo si deve fare sviluppando nuove modalità di animazione che vedano i soggetti partecipi. Al contempo dovremmo impegnarci a sviluppare una nuova cultura della cura nella popolazione (a cominciare da quella giovanile), stabilendo un contatto più diretto col personale medico, infermieristico, sociale e in generale ‘di cura’ a tutti i livelli. Per far questo dovremmo costruire una infrastruttura operativa territoriale attraverso dei professionisti della promozione che facciano da baricentro di una collaborazione virtuosa fra istituzioni e popolazione.
In conclusione, per andare verso un nuovo Patto di salute dovremmo adottare un orientamento guidato dalle 4 P, che hanno in comune una visione relazionale della vita sociale e dei rapporti di cura, dove la salute e la cura diventano terreno comune, tessuto fra le persone e le istituzioni, bene collettivo. Allora una nuova ‘Casa della salute di comunità’ (come mi piace chiamarla) diventa un obiettivo primario non tanto come luogo da costruire, ma come laboratorio, telaio artigianale su cui tessere dei processi relazionali continui, allargati, pluridimensionali, con il pieno coinvolgimento delle istituzioni sanitarie, ma anche del Comune, della scuola, dell’associazionismo e delle altre presenze territoriali che vogliono e possono ‘dare una mano’.
È un sogno che, se sognato insieme, può diventare realtà!
1 Coordinatore del Laboratorio Salute dell’AC “Luigi Battei”
Sottoscrivo interamente quanto ha scritto Marco, il quadro che ha delineato è piuttosto chiaro. Aggiungo qualche elemento che viene dall’esperienza di cure primarie che sto facendo in terra reggiana. Trovo centrale la necessità di mettere a sistema l’infermiere di comunità (che adesso chiamiamo infermiere della cronicità), quello che Marco individua come il ‘professionista della promozione’, in grado di produrre prevenzione (se non primaria, almeno secondaria e terziaria), con modalità di medicina di iniziativa e non in attesa della richiesta prestazionale (molto spesso poco appropriata). Noi stiamo sperimentando tutti i giorni la grande risorsa delle professioni sanitarie non mediche delle cure domiciliari e dell’assistenza di cure palliative, in autonomia, ma con integrazione con MMG, assistenti sociali, centri specialistici ospedalieri, Hospice, CRA, centri per i disturbi cognitivi, salute mentale, ecc., con anche reperibilità notturna e festiva. Questi infermieri delle cure primarie da noi collezionano elogi scritti dai pazienti e dai loro caregiver, gestiscono numerose persone e intere famiglie con anziani e cronici. Durante la pandemia i coordinatori infermieristici hanno tenuto unito il sistema, mettendo in rete anche le nuove risorse delle USCA, degli ambulatori Covid, del sistema dei tamponi domiciliari.
L’altra lezione della pandemia è stata l’accelerazione degli strumenti di comunicazione digitale; oggi non ha più senso andare dal medico per ricevere una ricetta da portare in farmacia o fare ore di attesa per una visita ambulatoriale che può essere prenotata online; la sorveglianza telefonica o con videochiamata permette di ridurre le visite e di incrementare i contatti di follow up, soprattutto se a domicilio sono presenti strumenti come il pulsossimetro o un misuratore per la pressione. Abbiamo anche imparato che è possibile e utile prendere in carico tutta la famiglia, anche i minorenni presenti, attivando le risorse e le consulenze necessarie (ad esempio USCA in presenza e pediatra collegato in videochiamata). Molto di quanto fatto nell’ultimo anno potrebbe proseguire anche quando terminerà la pandemia. La digitalizzazione però deve essere meglio implementata, ad esempio rendendo obbligatorio il FSE (ormai tutti i dati sono informatizzati), senza aspettare una adesione volontaria lenta e a macchia di leopardo.
Un altro punto a mio avviso essenziale è rendere prassi il lavoro di gruppo dei MMG/PLS; lavorare in solitudine dovrebbe diventare l’eccezione, a costo di perdere in prossimità (per questo ci sarebbe l’infermiere di comunità e l’ostetrica). Lavorare in gruppo significa condividere, confrontarsi, specializzarsi, utilizzare ecografo, ECG, e tanto altro (anche esami ematochimici, sierologici e batteriologici rapidi), significa poter fare campagne vaccinali e gestire i principali PDTA senza delegare ai centri specialistici (dove si dovrebbe fare il secondo e terzo livello). Medicine di gruppo con infermiere e personale amministrativo, per i PLS anche l’ostetrica alcune ore alla settimana. Tutta attività programmata e pianificata, con offerta H12 che toglie accessi impropri ai PS. Nei week-end collegamento con la continuità assistenziale, che accede ai dati dei MMG, possiede elenchi dei pazienti palliativi e cronici, invia feedback e referti online ai curanti e agli infermieri di nucleo.
Ultimo tassello sarebbero gli OSCO (tutti gli attuali piccoli ospedali dovrebbero diventare ospedali delle cure primarie o almeno una parte di queste strutture), dove un MMG può inviare un paziente per diagnostica e terapia, con possibilità di ricovero breve, infermiere H24; il MMFG manterrebbe le funzioni di responsabile delle cure, senza delegarle ad altri. Negli OSCO si creerebbero anche le connessioni tra medici delle cure primarie e specialisti territoriali, che diventerebbero dei veri e propri consulenti del MMG. La nuova generazione di medici di cure primarie mi sembra pronta per un salto di questo tipo. Resterebbero da gestire le questioni contrattuali e sindacali, ma la struttura per un cambiamento profondo credo che sia già presente.
Mi sono limitato agli aspetti prettamente sanitari che sono quelli che conosco meglio, ma l’integrazione è ovviamente ampliabile agli altri settori che nella relazione di Marco sono bene descritti.
Alessandro Volta
Direttore Programma Materno-Infantile, Dipartimento Cure Primarie Ausl RE