L’agire educativo nel sistema della vita
Alessandro Bosi
L’agire educativo nel sistema della vita Alessandro Bosi Molte autorevoli riflessioni sul presente, concludono denunciando carenze nell’educazione e invocando il ruolo della Scuola perché provveda. Non troveremo questo schema nell’enciclica Fratelli tutti. Papa Francesco propone un’ampia rassegna dei problemi che affliggono il presente, ma non li mette sul conto dell’educazione e della scuola, si direbbe anzi che il sistema educativo non rientri nei suoi interessi. Possiamo credere che sia così?
L’enciclica ha un’architettura complessa che ripete, con una più rigorosa geometria, quella della Laudato si’. Si compone, nell’edizione on line di cui dispongo, di 287 passi numerati, così credo di poterli chiamare, divisi in nove capitoli articolati in un numero variabile di paragrafi. L’enciclica termina con due preghiere sulle quali non mi soffermerò. Nell’insieme dei passi numerati, 277 sono compresi nei paragrafi. Ciascuno dei rimanenti dieci, precede l’inizio di otto capitoli; il primo è preceduto da due passi. I passi non hanno solo una funzione introduttiva. Sono anche una guida alla tessitura dell’enciclica. All’inizio, (1 e 2) rivelano al lettore il debito contratto dal Papa nei confronti del Santo di cui porta il nome; più avanti, il passo 9 si sofferma su alcune tendenze del mondo attuale; il 56 dichiara l’intenzione di dedicare il capitolo a una parabola di Gesù; l’87 suggerisce il segreto dell’autentica esistenza umana. Di seguito, i passi anticipano il contenuto dei capitoli, richiamano le acquisizioni conseguite, raccordano le parti facendo crescere l’insieme che si viene esponendo.
Nei dieci passi, si chiarisce l’intenzione di definire e denominare l’argomento che viene poi analizzato e approfondito. Ne consegue un’esposizione nella quale ogni successivo passo, in ragione della collocazione nell’ordito, può essere fonte e fuoco di una possibile mappa del discorso. L’insieme delle mappe mette capo, come in un ologramma, all’unità del discorso. Al contrario di un labirinto, che è un luogo dove perdersi, l’enciclica ha un disegno concepito per ritrovarsi muovendo da ogni dove.
In modo più determinato di quanto accadesse nella Laudato si’ , la numerazione dei passi diventa testo e l’insieme assume la fisionomia di un ipertesto dove i dieci passi guida sono la voce di un narratore esterno che indica come la parte sia elemento vivo di un insieme olistico. I passi guida si direbbero glosse o forse scolî scritti dal lettore della sua stessa scrittura che consiglia di leggere contestualmente parti fra di loro distanti.
Vi è, anche nel parlato e nello scritto, come nella pratica della fraternità e dell’amicizia sociale, un prima e un dopo, una distanza, dunque, che è inesorabile e imprescrittibile. Quel che accade nel testo, a distanza di molte pagine, accade nel lettore a distanza di tempo. Ma questa distanza può essere letta come prossimità nella lettura contestuale che l’ipertestualità di scrittura e numerazione consente.
Se apriamo lo sguardo ai nove capitoli scorrendone i titoli, comprenderemo come si possa confermare il giudizio che Carlo Petrini espresse nella sua Guida alla lettura della Laudato si’, quando sottolineò come la gioia vi prevalesse nonostante i suoi presupposti fossero profondamente dolorosi. Tuttavia, credo che la prevalenza della gioiosità sul dolore, sia qui più marcata per due motivi.
Il primo: l’emergenza sanitaria ha, per così dire, messo a terra tutti i discorsi sulle responsabilità accumulate nella mancata cura del mondo costringendoli a misurarsi con una minuscola cosa capace d’inceppare i congegni più sofisticati concepiti per realizzare il disegno di un’identità sovrana nella quale i modi di pensare e di vivere collettivamente coincidono necessariamente. Questa ferrosa ontologia – che abbiamo ereditato dalla modernità classica, contro la quale il criticismo novecentesco ha visto spuntarsi, una dopo l’altra, le sue armi – messa a nudo, provoca un brusio nell’albero genealogico dell’umanità che lo scuote assai più di quanto non abbia fatto, e ancora non faccia, il fragore delle guerre. Come il viandante sorpreso da una tormenta che lo flagella stringe gli abiti intorno al suo corpo, mentre il caldo sole, accarezzandolo, lo persuade a liberarsene, così il brusio provocato da un virus che non si sa dove sia né come stia cambiando il suo aspetto nel mentre lo identifichiamo, ci impone di spogliarci delle convinzioni alle quali eravamo abituati. La minuscola cosa offre agli antichi navigatori di spazi immensi la tragica ventura di rifare i conti col proprio sé per stare al mondo. La scommessa non è tanto su ciò che faremo, quanto su ciò che saremo. Nel tragico di questa sfida s’annida la gioia di credere che si possa essere perfino migliori di come siamo stati mentre ci descriviamo come gli inetti eredi di una gloriosa stirpe ogni volta che, con sospirosa nostalgia del passato, evochiamo in ogni ambito i giganti delle passate generazioni ai quali forse, animati da giovanili entusiasmi, non risparmiammo più ingiurie che critiche.
Il secondo: la distanza soggettivo-oggettivo, vivente-non vivente, umanità-viventi, io-mondo si riduce in quanto la Fratelli tutti ci mette in gioco personalmente col richiamo, potente e reiterato, all’amore che non è affatto idealistico sogno adolescenziale destinato a evaporare con l’inoltrarsi della vita nella durezza delle cose nelle quali accadiamo. È al contrario, per chi si professi e per chi non si professi religioso, un modo di esperire la vita provocandone il fiorire. Della vita, non si fa esperienza appuntandola orgogliosamente in un curriculum, ma favorendone la fioritura nei diversi modi in cui si manifesta e in cui potrebbe manifestarsi. Per quanto l’amore sia offeso e mortificato ogni giorno dai crimini che perpetriamo, dovremo ammettere che ancor più numerose sono ogni giorno le prove della sua vitalità. Non saremmo ancora qui a parlarne dopo le prove cui siamo stati sottoposti, se non lo avessimo difeso ostinatamente e praticato pervicacemente. Le guerre e gli orrendi crimini dei quali siamo capaci, l’insensata determinazione nel distruggere il nostro stesso ambiente per garantirci un’illusoria felicità, si affermano con virulenza mentre siamo schivi nel mostrare la bellezza e la potenza dell’amore che nasce dalla cura di sé nell’essere ospite dell’altro che ci ospita nel sé. L’alchimia dell’amore è il fiato dell’umanità che gareggia incessantemente con l’orrore di cui è capace e con la miseria alla quale ci vorrebbe costringere.
È da questa gioiosità che occorre partire per ogni considerazione sull’educazione della quale, quando non si sapesse che cosa dire, si dovrebbe dire che non può esistere in mancanza della gioiosità. Se nella Laudato si’ un intero capitolo, il sesto, era dedicato all’educazione e alla spiritualità ecologica, nella Fratelli tutti non troviamo né un capitolo né un paragrafo intitolati all’educazione. Qualora considerassimo i termini correnti, dovremmo rilevare che educare compare una sola volta (114) mentre educazione ricorre sei volte in cinque passi (103, 109, 130, 187, 276). Potrebbe sorprenderci come i termini scuola, educatori, formatori compaiano al solo passo 114 e come di insegnanti, maestri, professori non vi sia traccia. Nell’enciclica si parla di processo educativo (151), impegno educativo (152, 167), carattere e missione educativa (114), ma nel complesso, come dicevo, il Papa non si affida all’educazione e al sistema educativo per fronteggiare i problemi sollevati, ma coltiva un pensiero che prospetta una rinnovata gerarchia di rapporti.
Mentre siamo soliti parlare della scuola, della sua organizzazione e del rapporto col mondo del lavoro, l’enciclica, rimettendo sui piedi le cose che stanno sulla testa, si riferisce all’educazione, alla finalità di cui la scuola è strumento e istituzione che abbiamo introdotto nella storia da un paio di secoli. Non bastasse, al concetto astratto di educazione, si antepone la sua processualità cogliendone l’intima relazione col sistema nel quale si viene evolvendo.
Così situata, non vorremo credere che l’educazione sia il sapere da raccomandare per salvare il mondo. Dovremo piuttosto intenderla come un modo d’essere nella relazione, un agire educativo che si viene esercitando insieme a chi si educa, restandone educati. Né la confonderemo con i discorsi sull’educare che, in due casi fra di loro conseguenti, sono del tutto privi di valore: quando procedono da sé stessi senza riferimento a ciò da cui traggono origine e nutrimento; quando non si limitano a delineare un orientamento formale, ma pretendono di prescrivere un corpo di contenuti. Quanto più i discorsi siano doviziosamente prescrittivi, tanto più nascondono, o espressamente disdegnano, di riferirsi ad altro che non sia la propria tecnicalità insegnata perché sia imparata e praticata. Ecco allora che un corpo di precetti si aderge nel deserto del pensiero e s’industria perché nulla abbia mai a fiorire nei dintorni così da non compromettere l’autoreferenzialità dell’educare. L’enciclica, che traccia le coordinate in cui iscrivere la processualità educativa da cui discendono i saperi, le istituzioni e gli strumenti conformati alle diverse situazioni, è estranea a questa impostazione.
Nel “domandarci chi sono quelli vicini a noi” (80) travisiamo il significato della parola prossimo e “acquista senso solamente la parola ‘socio’, colui che è associato per determinati interessi” (102). Al contrario, Gesù, con la parabola del buon samaritano, suggerisce di “farci noi vicini, prossimi” (ib.) a chi è distante così da concepire un prossimo senza frontiere (80, 83), nel tempo in cui le frontiere sono luoghi senza dignità umana (37 – 41). Perché accada, occorre ricordare che la fecondità di una persona e di un popolo consistono nel riconoscere “dentro di sé l’apertura agli altri” (41) esercitata in società che integrano tutti (97 – 98) quando siano fondate sul valore della solidarietà (114 – 117) e sui Diritti dei popoli (124 -127).
È a questa rete concettuale che afferisce l’idea di educazione nell’enciclica. Si guardi ai quattro passi sulla solidarietà e ai quattro sui diritti, dove la disuguaglianza fra gli uomini e le cause strutturali della povertà sono denunciate come quel mondo dell’ingiustizia nel quale alcuni, essendovi gettati dalla nascita, vivono senza averne alcuna colpa mentre pesa sugli altri la responsabilità di non saperli togliere da quella condizione. La solidarietà è una sola cosa con la “responsabilità di carattere educativo e formativo” delle famiglie per una “missione educativa primaria e imprescindibile” mentre agli educatori, ai formatori, alla scuola e ai centri di aggregazione infantile e giovanile, agli operatori culturali e dei mezzi di comunicazione sociale, è attribuito “l’impegnativo compito di educare i bambini e i giovani, chiamati ad essere consapevoli che la loro responsabilità riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della persona” (114). Questo compito richiede la solidarietà, “una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro […]. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i movimenti popolari” (116). Nessuno sia escluso da questo compito “a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi. Così come è inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto di essere donna, è altrettanto inaccettabile che il luogo di nascita o di residenza già di per sé determini minori opportunità di vita degna e di sviluppo” (121).
L’agire educativo, l’essere educati nell’educare, si evidenzia come il modo di rendere dinamica la relazione prossimità – distanza sottraendola a una rigidità tolemaica che la fissi in calotte di cristallo e, consegnandola a uno sguardo che segua l’umano cammino nella storia della vita, da quello stesso cammino si lasci guardare per esserne compiutamente coinvolto. L’enciclica non incoraggia la delega alla responsabilità educativa ma, come nell’antica filosofia greca, assume il processo educativo in un’antropologia che situa le relazioni umane nel sistema della vita.
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