Universalismo dei diritti umani e imperialismo culturale
Di Samuele Trasforini
La Dichiarazione universale dei diritti umani dal 1948 in poi, promuovendo un modo di intendere gli esseri umani in termini individuali e avanzando una prospettiva universalistica della dignità umana, anche per mezzo di organi internazionali in grado di tutelare individui e comunità, ha permesso in moltissimi contesti di crisi il non regredire allo stato di barbarie. Nonostante ciò, l’universalismo promosso dalla dottrina dei diritti umani piuttosto che una realtà tangibile e concreta o semplicemente programmatica sembra essere una suggestione piuttosto problematica, filosoficamente fondata e fondativa della cultura della specie umana, ma – al momento – ideologicamente e culturalmente strumentale.
Secondo il filosofo e sociologo Jurgen Habermas è necessario sostenere l’universalismo almeno sul piano teoretico poiché nell’applicazione pratica vi è già insito un particolarismo determinato dal contesto di applicazione; così come la realtà sensibile platonica è un’immagine imperfetta del mondo delle idee, anche l’applicazione pratica e materiale della dottrina dei diritti umani è una versione imperfetta della controparte ideale universale.
Il giurista Antonio Cassese[1] e il politologo Michael Ignatieff sostengono la necessità dell’universalismo da un punto di vista pragmatico, ovvero giustificano la loro posizione sostenendo che solo una prospettiva pratica universale del diritto è in grado di garantire dignità agli esseri umani, considerandoli (anche) come fini piuttosto che (solo) come mezzi. Il mondo è costituito da molteplici culture, Stati con diverse forme di governo, con libero mercato o a economia pianificata, laici o con religione di Stato, ecc., eppure secondo Ignatieff e Cassese è possibile circoscrivere un ristretto nucleo di diritti umani che accomuni ogni realtà particolare. Non è possibile tutelare gli individui se il fronte di guerra è troppo ampio, poiché difendendo la totalità dei diritti si finisce per non tutelarne nessuno. Così, non è possibile fare altro se non sostenere un universalismo in termini di nuda vita, ovvero è necessario conferire il primato ad alcuni diritti civili e politici su quelli economici, sociali e culturali – nonostante Ignatieff stesso sostenga che è solo in un determinato contesto socio-economico che i diritti civili e politici diventano sostanzialmente concreti.
Un altro limite che Ignatieff e Cassese evidenziano è quello riguardante l’utilizzo della dottrina dei diritti umani per giustificare interventi militari che in realtà celano interessi privati: in effetti, vi è tra gli Stati occidentali una tendenza a perseguire fini economici e geopolitici sotto lo stendardo della difesa dei diritti umani, non perpetrando altro che una forma di imperialismo culturale. Che la Dichiarazione universale dei diritti umani sia nata conseguentemente a una contingenza politica europea (le estreme violenze che hanno avuto luogo contestualmente alla seconda guerra mondiale) e a una tradizione filosofica del Vecchio Continente (il giusnaturalismo), non implica che tale dottrina sia permeata da una dimensione regionale europea (o più semplicisticamente occidentale); pertanto l’imperialismo culturale non riguarda l’aspetto teoretico, piuttosto concerne l’applicazione pratica sul piano internazionale. Secondo Ignatieff e Cassese, per rendere effettiva la tutela dei diritti umani è necessario limitare gli interventi militari a quei soli contesti in cui occorrono gravi violazioni della dignità degli esseri umani.
Un esempio perfetto di quello che potremmo definire «imperialismo culturale» è lo scandalo delle torture di Abu Ghraib (2004), nel quale i soldati americani furono responsabili di atti contro i diritti umani a danno dei prigionieri per mezzo di torture fisiche e psicologiche, stupri e omicidi. L’intervento militare in Iraq fu motivato – tra i vari argomenti – dalla necessità di porre fine al regime di Saddam Hussein colpevole non solo di aver finanziato programmi nel campo delle armi di distruzione di massa, ma anche di gravi violazioni dei diritti umani; gli invasori si ambientarono così bene nel contesto iraqeno che decisero di portare avanti la tradizione, ovvero umiliando, torturando, stuprando e uccidendo – con tanto di fotografie commemorative – i detenuti della prigione di Abu Ghraib.
«Ogni individuo ha diritto alla vita»[2], si può leggere nel terzo articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani: nel 2004, questo non valeva certo per gli iraqeni che si sono visti negato tale diritto prima dai governanti locali e poi dagli invasori occidentali. In realtà la fenomenologia di questi eventi non era certamente inedita, considerando che gli Stati Uniti non rispettavano e non rispettano tuttora i diritti umani nemmeno in territorio americano: un esempio è l’essere in vigore della pena di morte (in 28 Stati americani), che già 250 anni prima dello scandalo di Abu Ghraib fu oggetto di critica nel Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria.
Secondo Sigmund Freud, come riporta il filosofo politico Pier Paolo Portinaro[3], laddove viene meno lo sguardo giudicante della comunità cessa anche la repressione degli appetiti malvagi: in assenza del Super-Io, l’Io non può fare altro che abbandonarsi all’Es, ovvero agli istinti più reconditi e perversi della psiche umana; laddove non vi sono l’occhio vigile dei media e il giudizio della comunità internazionale, ogni mezzo trova giustificazione nel fine arbitrariamente prefissato. La tesi di Freud spiega alla perfezione quel meccanismo psicologico sotteso a sistematiche e dissimulate violazioni dei diritti umani.
Oggi ci troviamo in una situazione molto diversa rispetto a quella del 2004: la dialettica freudiana non ha più alcuna ragion d’essere e la risposta mediatica internazionale alla crisi israelo-palestinese del 2021 ne è una dimostrazione.
I recenti scontri hanno causato la morte di 13 israeliani (di cui 2 bambini) e di 256 palestinesi (di cui 66 bambini), oltre al danneggiamento di 53 scuole e 17 strutture ospedaliere palestinesi.
Per comprendere meglio l’ escalation di violenze tra Israele e Gaza e la conseguente presa di posizione della comunità internazionale è necessario introdurre il concetto di terrorista: Cassese definisce terrorista «chiunque commetta un’azione criminosa […] contro civili […] allo scopo di coartare un governo, un’organizzazione internazionale o un’entità non statale […] diffondendo il terrore nella popolazione civile […] per una motivazione politica o ideologica»[4]; Portinaro aggiunge che il terrorista non può che compiere azioni simboliche sostanziate da specifici contenuti, ovvero da rappresentazioni di genocidi in miniatura. Poiché in questo conflitto è preponderante la dimensione della violenza a danno di civili assieme a quella della tensione ideologica, sia gli attacchi di Israele che quelli della Striscia di Gaza sembrano ricadere sotto il concetto di terrorismo. Malgrado ciò, il contenuto simbolico miniaturizzato delle azioni israeliane è certamente meno simbolico e meno miniaturizzato del contenuto simbolico genocidiario palestinese. Portinaro, inoltre, riconduce l’agire terroristico al fenomeno dell’asimmetria di potere, ovvero a quello scarto tecnologico che vi è tra le milizie territoriali e le grandi potenze militari, dinamica che pertanto qualifica teoreticamente gli attacchi di Gaza come attacchi terroristici ma non quelli israeliani. Ne consegue che Hamas è un’organizzazione terroristica e che ciò non vale invece per Israele, che è – forse – qualcosa di peggio, in quanto grande potenza militare dal contenuto simbolico genocidiario dell’agire sostanzialmente più materiale rispetto al contenuto simbolico della controparte palestinese.
Definire il terrorismo ci permette inoltre di analizzare la recente crisi per mezzo di quello stesso apparato concettuale utilizzato dalle autorità israeliane e dall’opinione pubblica occidentale. Quando a Gaza le autorità palestinesi non rispettano i diritti umani siamo di fronte a una grave violazione dei diritti umani a opera di organizzazioni terroristiche; quando invece gli israeliani distruggono infrastrutture, ospedali, scuole, sedi giornalistiche, uccidendo civili e bambini, questo “stesso” fenomeno prende il nome di «guerra al terrorismo». L’ipocrisia di fondo su cui poggia il castello ideologico occidentale a giustificazione di interventi militari è più che evidente. Un esempio di atteggiamento ambiguo ci è stato offerto dall’Italia: il 12 Maggio 2021 a Roma hanno manifestato assieme in difesa di Israele sia i politici di destra che quelli di “sinistra”, da Matteo Salvini a Enrico Letta, da Antonio Tajani a Virginia Raggi, da Maria Elena Boschi a Giovanni Toti; inoltre, anche stampa e media si sono pressoché tutti schierati in favore del governo israeliano.
La dialettica freudiana è morta, risorgendo oggi in una nuova e perversa forma: laddove vi è una comunità giudicante il manifestarsi dei malvagi appetiti non trova altro che giustificazione e legittimità. L’imperialismo culturale è dunque la manifestazione ultima dell’universalismo come strumento ideologico e processo atomizzante.
Habermas, Ignatieff e Cassese hanno filosoficamente e pragmaticamente ragione: l’universalismo è necessario, se non altro poiché tutti gli esseri umani appartengono alla stessa specie. Nonostante ciò, esso non deve tramutarsi in atomismo, che è la causa del dissolversi della comunità; l’individuo universale astratto e atomizzato deve essere ricondotto a un contesto economico, sociale e comunitario, poiché in assenza di esso vi è l’inibizione del processo dialettico della psiche freudianamente intesa e il conseguente abbandonarsi dell’Io all’Es; il manifestarsi degli appetiti malvagi – l’imperialismo culturale – è la vera minaccia alla dottrina dei diritti umani, pertanto è necessario trovare solide fondamenta teoretiche per l’universalismo cercando anzitutto di evitare l’atomismo e riportando l’individuo in un contesto economico-sociale (possibilmente) universale; infine, occorre stabilire quale sia la giusta misura attraverso cui concretizzare interventi militari a tutela della dignità degli esseri umani.
- Antonio Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma 2005. ↑
- https://it.wikisource.org/wiki/Dichiarazione_Universale_dei_Diritti_dell%27Uomo_-_UNGA,_10_dicembre_1948 ↑
- Pier Paolo Portinario, L’imperativo di uccidere, Laterza, Roma 2017. ↑
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Antonio Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma 2005, pp. 195, 196. ↑
Cara Giusy Diquattro e caro Francesco Gianola Bazzini, il vostro commento è cosa molto gradita, considerato anche il fatto che il rapporto tra oriente e occidente è un tema che portate spesso nei vostri scritti e che conoscete certamente meglio di me.
La dottrina dei diritti umani – utile, giusta e necessaria in un mondo come il nostro – ha come limite il ridurre la specie umana all’individuo, entità astratta e metafisica svincolata dal contesto in cui è di fatto inserita. Cassese, Ignatieff e Habermas hanno buone ragioni per sostenere l’universalismo (a volte atomisticamente) dei diritti umani, così come ha buone ragioni la critica marxista – di cui Zizek è un illustre esponente – che sostiene che l’individuo non possa essere considerato a prescindere dal contesto socio-economico e che l’universalismo non debba essere inteso in termini di nuda vita bensì in termini di esistenza completa, condizione che permetterebbe all’essere umano la libertà dal bisogno materiale e la possibilità di esprimere il proprio potenziale.
La Dichiarazione deve essere un punto di partenza, non un punto di arrivo (al momento non è nemmeno questo) e la strada da percorrere è piena di ostacoli che vanno superati sui piani teoretico-filosofico, giuridico, economico-politico, culturale, ideologico e di applicazione pratica.
Samuele Trasforini
Leggo con piacere l’articolo di Samuele Trasforini, la sua riflessione sui Diritti Umani. Anch’essi necessitano di un processo di decolonizzazione culturale. Molti enunciati infatti si fondano sul concetto d’individuo, quando invece alcune societa’ hanno dato piu’ importanza all’idea di comunita’. E poi la potenza dei simboli… Certamente oggi la Palestina chiama alla resistenza tutti gli oppressi della storia e del sistema aggressivo della globalizzazione e Israele incarna un modello pubblicitario di tecnodemocrazia fondato su identita’etnica, propaganda e oppressione violenta.
Il contributo di Samuele Trasforini, invita ad una serie di riflessioni sugli strumenti e sulle barriere di esclusione ed inclusione forzata. Ha toccato il tema del conflitto Israelo – palestinese con garbo senza ipocrisie ma con un punto di vista che condivido. Tra l’altro ricorre quest’anno il sessantesimo anniversario della costruzione del muro di Berlino. Credo il tema in generale meriti un dovuto approfondimento, nel solco di quanto Samuele ha saputo proporre.
Seguirò volentieri questa traccia. Credo non sarò il solo.
Francesco Gianola Bazzini