“31 anni e una pandemia”. Capitolo 1: La Fuga
Nota ai lettori
Questo è un diario. Come tutti i diari copre un arco temporale, che poi è un frammento di vita, e nel nostro caso vuol dire da Aprile a Dicembre 2020. Nei diari le contingenze contano solo a posteriori, per noi lettori, perché scrivere un diario è prima di tutto sollevarsi dalle contingenze, o almeno tentare di farlo. Per questo il fiato di queste pagine è alimentato dal confronto del Dialogo della Natura e di un Islandese di Giacomo Leopardi: perché si confronta con un classico senza tempo, che le contingenze le scrolla da sé continuamente. Non a caso, poi, pur essendo questo diario opera di un’esperienza personale, vuole offrire una panoramica di temi di forte rilevanza sociale come la condizione lavorativa dei giovani, il conformismo, la disabilità, la difficoltà di creare progetti.
Ad ogni capitolo sarà affiancata una musica o un’aria: perché il fiato narrativo, quando è capace, chiama a sé ogni forma d’arte, come un pifferaio magico.
Testo e scelte musicali nascondono due persone, l’autore e chi scrive: il primo artefice delle parole che ha tratto dalla propria esperienza trasformandole in diario, il secondo responsabile della selezione di musiche e della cura editoriale. Qualcuno ha scritto che l’opera d’arte si realizza in una doppia solitudine, quella di chi la crea e quella di chi la accoglie: questo lavoro corale ha permesso di condividere questa solitudine, scopo primo di ogni puro intento letterario. In un periodo come quello attuale, si scoprirà che ciò è più che necessario.
L’appuntamento è settimanale, e proprio questo vuole cavare dalla scorza: la forza di un’abitudine, il senso rituale di un’appartenenza.
Federico Dazzi
Giuseppe Turchi
31 anni e una pandemia
Parte I
“Incatenato”
1. La Fuga
È l’una di notte e non ho sonno. Da quando non devo più alzarmi presto per andare a far lezione i miei ritmi si sono stravolti. Passo tutto il giorno sui libri o sul computer a seconda che debba studiare o scrivere. Quando passano le 23:00 abbandono entrambi. La testa e gli occhi mi fanno sempre male nonostante gli occhiali con il filtro per la luce blu. Eppure nessuno potrebbe togliermi il mio rito autolesionistico: arrivare fino alle 02:00 in compagnia della rassegna stampa su RaiNews24, tradita di tanto in tanto con qualche programma di approfondimento.
Nei titoli in sovraimpressione passano i numeri dei contagi, dei deceduti e dei guariti. Il succedersi delle parole sembra una processione funebre. Oltre ai numeri vi sono dichiarazioni dei politici, accuse, stime su quanto andrà male il futuro. L’analogia col funerale calza su tutto.
Il richiamo della vescica rompe lo stato d’ipnosi. Camera mia è un bugigattolo di tre metri per tre da cui si vedono il muro del condominio e una striscia verticale di boschi. Ora che è buio vedo solo il muro.
“State in casa!” tuonano da Palazzo Chigi. Per me non è poi così difficile. Sono abituato sin da piccolo a estenuanti periodi di convalescenza. La mia stanza è un laboratorio creativo dove passo l’80% del tempo. Ho cercato di mettere ordine tra libri e CD con risultati mediocri. Dove lo spazio manca, devo inventarlo.
Mi alzo e vado in bagno. Prima ancora di sollevare la tavola del WC, tiro su la tapparella e apro la finestra. Proprio di fronte a me si vede il contorno del monte Pareto di Solignano. Sulla destra la sagoma di una pala eolica e delle piccole colline. Sopra di esse riverbera un sottile alone giallognolo. Che siano le luci dei Comuni vicini? Conosco così poco la geografia di quello che ho intorno.
C’è un cielo limpido come se ne vedono pochi. Da quando sono scattate le manovre di contenimento il meteo è stato assai generoso. Che ironia… Ma forse è meglio così. Le nubi e la pioggia mi devasterebbero l’umore.
Respiro a pieni polmoni l’aria priva delle scorie delle auto. Mi rievoca l’immagine di una grigliata in fiume con gli amici. Saranno passati dieci anni, forse di più. Poi le feste in paese quando ancora c’era la pista da ballo nel retro del bar Diana. Vent’anni fa. Io non ballavo ma con gli amichetti correvo tra gli alberi dell’area ristoro. Ricordo che avevo così tanta energia in corpo da poter arrivare alla mattina dopo senza dormire.
Sollevo gli occhi e mi perdo nelle stelle. Riconoscerei tutte le costellazioni se solo le avessi studiate. Notte, mi ascolti?
Che sciocco che sono. Sembro uno di quei sacerdoti antichi che invocava la natura per chiedere pietà.
«È questo che mi chiedi, pietà?»
Resto allibito per un attimo. Non avrei mai pensato che qualcuno rispondesse. O forse è tutto nella mia testa?
«Allora?»
Avrei bisogno più di consolazione che di pietà.
«Credevo che non ti dispiacesse startene chiuso in casa.»
La verità è che non mi fa bene. Guarda ora: mi sono appena affacciato dalla finestra e la corrente fresca mi sta rianimando. Dovrei ascoltare di più queste sensazioni.
«Stai prendendo coscienza di nuove necessità. Adesso devi visualizzarle meglio. Cosa vuoi davvero?»
Vorrei la libertà e la leggerezza dell’aria. Vorrei percezioni semplici: colori vividi, profumi, il rumore dei grilli e del più lieve frusciare delle foglie. Vorrei uno spazio che non sia invaso.
«Curioso. Non temi il fermo della società e apprezzi il silenzio degli umani.»
Nel silenzio riesco a sentire il suono del mondo in un momento di pace. Niente rombo di motori, niente strilli dei politici, niente lamentazioni di gente frustrata. Cara Notte, quasi mi dissolverei volentieri nel tuo cielo scuro.
«Stai forse cercando di fuggire dalla realtà?»
Eh, forse hai ragione. Però, per stasera, lasciati godere così. La quarantena è appena cominciata.
Ultimi commenti