Per vie traverse

Nota redazionale
Come già segnalato e commentato in un articolo precedente, oggi 8 luglio 2021, Edgar Morin, intellettuale di fama mondiale, compie 100 anni. Prospettiva ha il piacere di partecipare all’omaggio collettivo in atto in tutto il mondo per questo evento straordinario con la pubblicazione, per gentile concessione dell’editore, del contributo di Sergio Manghi, membro del Direttivo dell’Associazione culturale Luigi Battei, al volume, a cura di Mauro Ceruti, Cento Edgar Morin. Cento firme italiane per i 100 anni dell’umanista planetario, Mimesis 2021 (pp. 444, € 28).

 

 

Di Sergio Manghi

 

E all’aurora, armati di un’ardente pazienza…

Arthur Rimbaud

 

Un mattino di trentacinque anni fa, quasi esatti. Seduto nel prato del castello di Cerisy-la-Salle con gli altri iscritti al Colloquio Arguments pour une Méthode, dedicato a – e soprattutto con – Edgar Morin. Quando toccò a me dire perché mi trovassi lì, non sapevo ancora quanto mi sarebbe divenuta familiare, e cara, quella sua presenza attenta, spugnosamente curiosa, con la quale ascoltava una per una, in piedi di fronte a noi, le nostre rapide presentazioni – né, insieme, quanto spontaneamente fraterna sarebbe divenuta in quella settimana conviviale l’amicizia con gli altri partecipanti italiani, Gianluca e Mauro, giovani apripista della sfida della complessità nel nostro paese. Benché li avessi già conosciuti, tutti e tre, e benché a quella data avessi già scritto un libro che nel titolo, Il paradigma biosociale, mimava non a caso quello del testo moriniano a me più caro – il seminale Paradigma perduto – è a quell’inizio estate del 1986, e a quel breve fiotto emozionato di parole, che la memoria ritorna, per cogliere il senso più vero del mio debito personale e intellettuale con Edgar Morin. Il suo segno indelebile in quel modo “eco- logico” d’intendere i legami viventi, e insieme quelli umani, che cerco di coltivare dalla fine degli anni Settanta, nelle mie pratiche di ricerca, formative e in senso ampio politiche.

C’ero arrivato per vie traverse, a quello snodo teorico-pratico che chiamavo appunto, e avrei continuato a chiamare, risalendo a Bateson, “ecologico”. C’ero arrivato, precisamente, partecipando con l’amico Marco Ingrosso all’accesa diatriba internazionale suscitata dalla Sociobiologia di Edward Wilson. Una diatriba nella quale ero entrato “canonicamente”, da paladino delle scienze sociali “critiche”, minacciate dall’“imperialismo genetico” wilsoniano, e dalla quale ero uscito, poco dopo – sempre assieme a Marco –, con domande fra le mani del tutto nuove, per così dire fuori canone. Domande terze, rispetto allo scontato dualismo modernista di naturale e umano sul cui terreno si giocava in larga misura quella partita, replicando inerzialmente dualismi metafisici anche più antichi – polis-physis, umano-animale, anima-corpo. Radicate cecità, tuttora saldamente in cattedra, delle quali le nascenti culture eco-politiche avevano iniziato a rimarcare le profonde implicazioni nel disastro ecologico in atto.

Nell’intrico effervescente di quelle “vie traverse”, avevo incontrato Edgar Morin. Il sociologo Edgar Morin – ben noto come tale anche nel nostro paese, specie per gli studi sul cinema e sull’“industria culturale” –, che a quelle domande fuori canone aveva iniziato a dare ascolto da ben prima. In embrione, già nel corposo L’uomo e la morte, del 1951. Ma soprattutto avviando a inizio anni Settanta (Il paradigma perduto è del 1973) una suggestiva opera trasversale, volta a ripensare la condizione umana in termini radicalmente non-dualistici. Ovvero come emergenza, altamente complessa, della più vasta avventura unitaria – unitas multiplex – del vivente. Un vivente ripensato a propria volta come processo autonomamente generativo (Autos) che senza posa crea organizzazione dalla dialogica incessante di ordine e disordine; toccando con la nostra specie, unitamente sapiens/demens, la tensione vitale massima di ordine e disordine. E noi viviamo, noi respiriamo / soltanto se bruciamo e bruciamo, annotava Morin citando Eliot.

Per queste vicende, mi trovavo dunque , quel giorno, in quell’inizio estate di metà anni Ottanta. Grato per quanto già avevo potuto fare mio, dall’incontro con Morin, e volto a quanto avrei potuto trarne ancora (titolo, scontato, del mio contributo al Colloquio: De l’Empire des gènes à la République du complexe; primo germe di quel che sarebbe diventato in seguito Il soggetto ecologico di Edgar Morin, 2009).

E oggi è una bella vertigine, pensare al tanto altro che da allora mi è accaduto di poterne trarre ancora, insieme a tanti altri. Grazie anzitutto alla fraterna generosità di Edgar, divenuta presenza costante, e quanto mai cara, coltivata nell’amicizia fedele nel tempo con Gianluca e Mauro, e poi con Oscar, e con Chiara, Pippo… E senza dimenticare naturalmente il perdurante sodalizio con Marco. Nel vivo intreccio, sempre, di innumerevoli scambi, italiani e internazionali, segnati da eventi o temi “moriniani” e da inquietudini epistemologiche convergenti. Tra le quali mi piace ricordare qui, con riconoscenza, nell’ambito della migliore sociologia italiana, l’originale ricerca del compianto Luciano Gallino, ben presente a Morin, e con stima ricambiata, che a Torino animò un laboratorio su temi “bioculturali” al quale ebbi il privilegio di partecipare.

Una bella vertigine, e una scossa di nuovo coraggio, Edgar carissimo, pensando a quanto potremo trarre ancora, insieme, in tante e in tanti, in questo tempo di fraternità difficili e nuove barbarie, dal tuo esemplare cammino di resistenza e di inesausta esplorazione. Cammino fuori canone, sempre. Ma sempre dentro la vita: “animato – così scrivevi aprendo Il Metodo – dalla religione di ciò che connette, dal rifiuto di ciò che rifiuta, da un’infinita solidarietà”.

A trovare e ritrovare coraggio, e sentimento rinnovato di “ciò che connette”, il tuo contagioso andare per vie improbabili e incerte, che solo provandosi a percorrerle diventano vie, ci è essenziale da un tempo tanto grande che non è possibile abbracciarlo in un solo colpo d’occhio, come il desiderio vorrebbe oggi, negato dalla distanza forzata a farsi stretta di braccia.

Ma ci ho provato lo stesso, in qualche modo. Lasciando che un nitido, fedele ricordo di tanti anni fa, è bello dirlo oggi con parole tue, mi venisse incontro. Con quella sua luce chiara di inizio estate. Quella luce dolce che hanno certi inizi, quando ancora non sanno di che cosa saranno stati inizio, eppure è come se già lo sapessero. Quegli inizi che sanno di scommessa, armati di ardente pazienza, di cui tu ci sei stato a lungo, e continui a esserci, fraternamente, maestro.

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