“31 anni e una pandemia”. Capitolo 2: Batteria Scarica

⏮️Vai al capitolo precedente

Vai al capitolo successivo⏭️

Giuseppe Turchi

31 anni e una pandemia

 

Parte I
“Incatenato”

 

2. Batteria Scarica

 

 

Mi appoggio di nuovo sul bordo della finestra dopo la rassegna stampa notturna. Stasera gli animali fanno un gran baccano. Ci sono uccelli che cinguettano ancora a quest’ora. Chissà cos’hanno. Non sono civette né assioli, per fortuna. Ho il vago ricordo di qualcuno che mi raccontava una leggenda del tipo “Se senti una civetta di notte è presagio di morte”. Qualcun altro aveva sostenuto si trattasse di streghe trasfigurate. Da allora mi sale un brividino ogni volta che li sento. Sono quei riflessi condizionati di cui non riesci a liberarti nemmeno dopo aver maturato una buona dose di cinismo. Non nego che la visione de Il Quarto Tipo possa aver contribuito in maniera sostanziale alla mia turba.

Però odo qualcos’altro oltre agli uccelli. Ecco! Chissà che animale è quello che sta gracidando ora. Non credo sia una rana. Forse è ancora il vocalizzo di qualche pennuto. Diamine, in ventisei anni che sono qui ho imparato a riconoscere solo civette e daini. Anche questa fragranza che arriva da non so dove: che piante sono? Che fiori sono? Vivo in un luogo ma non vivo il luogo. Scommetto che è un sentimento comune a molte persone.

A parte questo tu, Cielo, dovresti essere felice, no?

«Non mi lamento.»

Dicono che l’inquinamento atmosferico sia calato così tanto che al Polo Sud si sta persino chiudendo il buco dell’ozono. In compenso sembra se ne sia aperto uno piccolino al nord. Non ci capisco niente. Mi basta che i climatologi siano contenti.

«Confermo.»

Sai dirmi se anche i mari sono contenti? Ho sentito che i delfini si sono ripresentati a Venezia.

«Sciocchezze. Sono i cinghiali, semmai, ad aver preso coraggio. Adesso passeggiano per le strade delle città deserte.»

Dalle mie parti non ne ho ancora visti, però mi piace l’idea che gli animali si stiano riprendendo un po’ di spazio. Quando andavo a Parma dagli zii mi svegliavo la mattina con la vista di lepri e fagiani. Adesso quella zona è diventata un quartiere residenziale ad alta classe energetica. La città s’espande.

«Tu invece ti comprimi.»

Che vorresti dire?

«Perché cerchi gli elementi naturali invece di socializzare con i tuoi amici? Ti ho sentito mentre parlavi con la Notte.»

Temi che mi sia isolato? In effetti, dopo i discorsi dell’altra volta… Comunque no, non mi sono isolato. Adesso la batteria del cellulare mi dura appena fino a sera. Prima ci facevo un giorno e mezzo.

«Perdere un sacco di tempo sui social non è socializzare.»

Dai, non essere puntiglioso.

Però è vero. Spreco un sacco di tempo sul telefono, più che altro per noia. Su Facebook si sono moltiplicati i post che commentano l’attualità e gli inviti a stare a casa. Ne ho pubblicati un paio pure io senza grande riscontro. Su Instagram invece c’è la parata dei ricordi. Spritz, discoteche, superamici, un sacco di cibo. Ecco, il cibo funziona. Ho fame. Ma fame un sacco.

Mi manca andare in trattoria per mangiare il mio bel tagliere di pizza o i tortelli d’erbette. Una volta ho fatto anche il crossover, pizza con anolini, ma tralasciamo. Che sia da Christian o da Pippo, qui nei paraggi si sta una favola. Ci sono la risata con gli amici, il sapore del buon prosciutto, la pasta ruvida della pizza tra le dita, il profumo del formaggio filante, i condimenti variopinti.

«Non cambiare discorso.»

Sì, sì, ritorno in tema. Dicevo dei post su Instagram, giusto?

«Esatto.»

Oltre agli aperitivi vengono ricordate spesso le vacanze. Vedendomele passare davanti in continuazione sembra che la vita degli altri sia uno spasso. Sarò sincero: un po’ d’invidia monta. Ho letto che una psicologa americana la chiamerebbe “paragonite”. Non il minerale; la sindrome da social: vedi il bello solo al di fuori della tua vita e lo fai diventare lo scopo della tua vita. Se non riesci a realizzarlo, puoi sempre fare finta con scatti ad hoc.

«Hai pubblicato delle foto per apparire felice?»

No, Cielo, tranquillo. Non sono ancora a quel livello. Non m’interessa poter fare come gli altri per poi documentare tutto sulla App. E lo dico anche se ho cominciato a pubblicare molto di più.

«Cosa pubblichi?»

Stupidaggini, principalmente. Il Premier Conte è diventato un sex symbol e il governatore De Luca s’è trasformato nel Rambo italiano che minaccia di ricorrere al lanciafiamme per far rispettare il confinamento. L’ironia della Rete è meravigliosa. Una delle poche cose che salverei del Web.

«E tu hai preso spunto.»

Ho caricato una storia dove imito proprio De Luca. Non sono molto a mio agio di fronte alla videocamera, però due risate sono riuscito a strapparle. La battuta sulle mascherine del “coniglietto Bunny” mi fa impazzire. Confesso che sto pensando anche a una cosa più seria, tipo a un canale YouTube dove leggere alcuni passaggi di brani filosofici che trovo ancora molto attuali. Ci sono veramente tantissimi pensieri di Platone, Aristotele, Epicuro, Pascal, Locke, Hume, Kant, J.S. Mill che si applicherebbero perfettamente ai temi di attualità.

«Ma?»

Il montaggio dei video richiede un sacco di tempo e le regole dei social t’impongono di essere costante. Tutto questo tempo io non riesco a trovarlo.

«Impiega meglio quello che stai sprecando.»

Sì, ne perdo tanto sui social, ma sempre come pausa tra un impegno e l’altro, oppure la sera, quando mi sento completamente passivo e non ho voglia di fare nulla. Senza contare che i miei argomenti sono quasi tutti di nicchia. Niente calcio, niente lusso, niente lati B mozzafiato, niente scenette da teenager. Non avrei molto seguito.

«È così bello avere i numeri?»

A volte sono necessari.

«In che senso?»

Solo il 10% dei follower vede quello che fai, e solo il 5% di quel 10% è interessato a quello che fai. A meno che tu non sia una star o un bel corpo. In quel caso tutto, di te, diventa interessante. I social sono una vetrina che dipende dagli altri e ci rimani male se nessuno si ferma a guardarla. Più numeri hai, meno corri questo rischio.

«Stai facendo arrabbiare le mie stelle. Cosa dovrebbero dire loro? Sono miliardi, ma ad attirare l’attenzione sono sempre quelle più appariscenti.»

È una legge che vale anche per le videochiamate di gruppo, sai? Ecco perché le scanso. I più estroversi – o logorroici, o egocentrici – finiscono sempre per monopolizzare i discorsi. A me, invece, non viene spontaneo parlare se non sono interpellato, quindi mi riduco ad ascoltare. Preferisco i rapporti uno a uno. Di solito sono più profondi e capisci meglio chi ci tiene davvero.

«Dici di non esserti isolato, ma qualcosa è cambiato.»

Cielo, te l’ho detto: mi piace il silenzio. Sono un tipo creativo e riflessivo, anche se sconclusionato.

«È strano che tu sia così tranquillo. Non hai paura che i tuoi cari vengano contagiati? Non pensi alla crisi del lavoro che verrà?»

Potrei averne una percezione distorta. Sono abituato a vedere i miei parenti acciaccati ma sempre con una tempra d’acciaio. Zii, nonni, genitori hanno tutti retto fatiche e superato incidenti per i quali uno come me sarebbe già morto sei volte. Rispettano le regole e questo mi dà tranquillità.

Per quello che riguarda il lavoro sono un “privilegiato”. Ho una supplenza fino a giugno in un istituto tecnico. Non è neanche metà cattedra, però lo stipendio arriverà regolare fino a giugno. Considerato che vivo ancora in casa, che non ho vizi e che non esco, risparmio un sacco di soldi. Non conosco l’ansia della cassa integrazione né del dover tirare avanti con un’impresa che non può lavorare. Conosco invece l’ansia del precariato e del presentarsi alle convocazioni a settembre nella speranza che vi sia ancora qualche supplenza disponibile. Per ora continuo con le lezioni a distanza e non ci penso.

Oh, guarda. Si sono fatte le 02:00. In effetti la palpebra cominciava a calarmi. Ti lascio, che domani devo assistere alla lezione di Inglese.

Vai al capitolo successivo: Autocertificazioni

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *