Salvare la letteratura e la critica con la tecnica delle acciughe

Di Federico Dazzi

 

Lo abbiamo visto, lo sappiamo: la letteratura in genere e la critica letteraria non godono oggi di buona salute, e ne abbiamo trattato in un articolo precedente. Come osserva Romano Luperini, si è passati dalla letteratura della crisi alla crisi della letteratura nel giro di pochissimo tempo.[1]

A mano a mano che la sua identità va evaporando, la letteratura si deposita come una polvere impalpabile in una serie di altri ambiti (sceneggiature, pubblicità, scritti filosofici, storiografici, giornalistici…) diventando un “poetese”, avrebbe detto Sanguineti, buono per tutti gli usi. Ma tutto è diventato letteratura perché niente è più letteratura. È finita anche la dialettica anceschiana fra autonomia ed eteronomia della letteratura. Uno scrittore può essere impegnato o disimpegnato, ma nessuno se ne lamenterà né in un caso né nell’altro. La letteratura è diventata eteronoma, non perché abbia ceduto all’impegno politico, ma perché i mutamenti tecnologici, economici e sociali in corso ne hanno dissolto i confini. Che riesca a trovare un’altra identità nella contaminazione può darsi, ma non è detto. Il processo è in corso e i suoi esiti sono tutt’altro che scontati.[2]

Luperini rileva la attuale debolezza del campo letterario, in sostanza, nella troppa pervasività che ha assunto la letteratura. Se prima la separatezza garantiva un’autonomia in cui la letteratura poteva dotarsi di codici e di leggi specifiche, oltre che di obbiettivi, ora la frammentazione della stessa ha polverizzato granelli di identità in vari ambiti, con la conseguente dissoluzione del potere in numerosissimi pulviscoli culturali.[3] È l’effetto illustrato in maniera piuttosto fortunata da Hans Magnus Enzensberger nel 1974 nella conferenza La letteratura come istituzione ovvero l’effetto Alka-Seltzer: se si mette una pastiglia di Alka-Seltzer in un bicchiere d’acqua, dopo poco ne resterà solamente un minimo residuo visibile, mentre l’acqua inizierà a fremere. Così, la pastiglia è allo stesso tempo non visibile ma dappertutto in minuscoli frammenti. È la natura odierna della letteratura, ormai sempre più vicina ad esprimere una condizione che una categoria. Per dirla con Bourdieu, oggi sembra che il campo letterario abbia subìto profonde trasformazioni tali da mettere in crisi la concezione stessa della letteratura: persino questo campo letterario, con le sue regole e le sue prassi, si è frantumato, e la sua identità non più definibile lo isola dal possibile scontro-dialogo con le istituzioni della società. È pur vero che prima di parlare di una qualsiasi crisi della letteratura e della critica letteraria, bisogna rilevare che in realtà a mancare è un pubblico, oltre che una società civile, che a questa letteratura si confronti. La critica ha storicamente, in Italia, avuto difficoltà a parlare ad un determinato pubblico, spingendosi spesso in astrattezze senza la rilevazione di uno specifico contesto:

Si può dire in sostanza che l’intellettualità di ispirazione marxista, e la critica letteraria in particolare, così come non cerca di risolvere la contraddizione e separatezza politica-cultura all’interno del suo lavoro specifico, vivendola invece a livello di coscienza come nodo irrisolto; analogamente non arriva a porsi il problema di un contesto reale, di un rapporto critico con un destinatario collettivo, quasi confidando nelle capacità endogene del testo di trovarselo o crearselo da solo (condividendo anche qui un diffuso atteggiamento e costume).[4]

Ferretti parla giustamente della critica di matrice marxista, ma questa problematica è possibile rilevarla anche in tutte le correnti successive del Novecento, a partire dallo strutturalismo, dal formalismo e persino dalle teorie della ricezione. È mancata sempre una concezione chiara del destinatario della comunicazione, che, non a caso, è invece un elemento imprescindibile per l’attività editoriale: l’attuale problema riguardante il conflitto tra queste due attività – l’editoria e la critica – nasce proprio da qui. Al progressivo aumento di potere, reale o presunto, da parte del pubblico nella società odierna, tale che spesso esso crea tendenze e determina la fortuna di vari generi editoriali, non si è accompagnato un relativo interesse critico verso questo soggetto. Ritenuto per secoli un fenomeno passivo e limitato al solo ruolo di “ricevente”, il pubblico è ora un soggetto altamente attivo nelle dinamiche culturali, e se la critica non è stata in grado di rendersi conto di questo cambiamento, lo ha fatto l’editoria.

La critica infatti, a differenza della semplice lettura, si compone di un discorso a tre – interprete, testo, pubblico – svolgendo un’azione sociale di mediazione, e non può quindi fare a meno di una platea che accolga o meno le sue interpretazioni.[5] Questa funzione di mediazione non è infatti nemmeno più una prerogativa della critica, essendo oggi l’editoria il polo maggiore dove questa attività viene espletata:

La funzione della mediazione fra opere e pubblico, un tempo appartenuta ai critici, è stata occupata dall’industria culturale, che la gestisce in proprio, isolando gli scrittori gli uni dagli altri e lanciandone direttamente l’“immagine” sul mercato.[6]

Rimane sempre attuale la lapidaria constatazione che “la crisi della critica letteraria comincia da qui: dal fatto che il critico non sa più perché scrive e per chi scrive”.[7] Manca un pubblico, e quindi un obbiettivo. Va da sé che se non si sa per chi si scrive, è solamente questione di tempo perché ci si chiederà per quale motivo si scriva: il rischio è sempre più quello di “scritture a perdere”, in cui l’obbiettivo sarà sempre più circoscritto alla soddisfazione egoistica di criteri puramente personali, oltre che a produzioni a circuito chiuso, come spesso avviene in ambito accademico.[8] Il rischio, rileva sempre Luperini, è quello di smarrire la funzione storico-antropologica della critica e di restare prigionieri nell’ambito ristretto dell’istituzione.[9] È quindi forse il caso di riscoprire la funzione originaria della critica? Certamente sì, ma non prima di ritrovare il senso originario della letteratura, o se non quello originario, il più profondo. Parlando dei classici in un precedente articolo abbiamo notato come essi richiedano sforzi ingenti per essere letti, non tanto per una scrittura lontana, ma per una forza dirompente intrinseca che costringe il lettore a fare i conti sia con se stesso che con la tradizione di riferimento: una fatica che viene ricompensata con lo svelamento del loro potere originario, della loro funzione ab-origena. Si tratta sempre quindi di avere smarrito un senso, una direzione di lettura: la crisi della letteratura è relativamente recente, ma le radici sono nella nostra incapacità a leggere perfino la tradizione.

La crisi della critica letteraria è sicuramente un fenomeno evidente e le cause di questa crisi sono un germe che abita ogni settore del campo culturale: la disaffezione – e l’invadenza, come abbiamo visto – dell’editoria sempre più riluttante a pubblicare testi di critica letteraria in favore di una vita del libro sempre più effimera, la drastica perdita di identità da parte dell’insegnamento anche universitario, l’agonia delle riviste, così importanti per i dibattiti critici ma che oggi nessuno legge e stampa più, oltre che il degrado che vige nelle pagine dei giornali, dove fino a pochi decenni fa era possibile costruire dibattiti e articoli di critica seria e oggi divenuti contenitori di notizie usa e getta. Bisogna però considerare questa crisi all’interno di un fenomeno più vasto: in generale si è perso lo “spirito critico” secondo i dettami del postmoderno:

Non c’è dubbio, infatti, che tra i tanti significati che possiamo dare al concetto di postmodernità, il più importante ai fini del nostro discorso, ma anche in generale, è proprio questo: la fine dell’egemonia dello spirito critico nel costituirsi della soggettività, individuale e collettiva. Non è più la critica il lievito che alimenta il divenire storico e il processo sociale, ma la giustapposizione adialettica tra una razionalità sistemica, che aspira a presentarsi come rigorosamente oggettiva, e una soggettività cui sono richieste prestazioni di tutt’altro genere: passività, obbedienza, suggestione, consumo, accettazione dei miti, adesione ai simulacri, identificazione nei leader, aspirazione a essere governati (mentre «come non essere governati» era secondo Michel Foucault il fondamento di ogni critica possibile). Il tutto condito da uno scetticismo radicale, generalizzato, aproblematico, che ha preso in parola il motto nietzschiano nel mondo vero divenuto favola dimenticando che per lo stesso Nietzsche la liquidazione del feticcio del mondo vero doveva servire a una messa in questione radicale del mondo apparente.[10]

Daniele Giglioli rileva quindi che:

La cultura è la morte della critica. Alla riflessione sostituisce il feticismo, all’universale l’astratto, al soggetto l’identità (basta vedere come viene impiegato il termine in politica: la nostra cultura, la loro cultura, lo scontro di culture ecc.). Per accettarne la sfida, la critica deve trasformarsi in critica della produzione, più che dei prodotti, ovvero della cultura tout-court.[11]

Osserviamo a questo proposito che le conclusioni a cui si giunge sono le stesse già prefigurate da Ferretti nel Mercato delle lettere, in cui si diagnosticava un difetto della critica nello scarso interesse rivolto ai processi piuttosto che ai prodotti. È chiaro, nella società culturale in cui viviamo dove tutto muta velocemente e ciò che compie un anno è già vecchio, lo studio dei prodotti ha poco senso. Infatti una critica rivolta esclusivamente ai prodotti non avrebbe di che vivere, essendo questi dotati di una precarietà e di una estemporaneità maggiori di qualsiasi altra epoca. Oggi tutto vive poco, e anche i prodotti culturali, finita la loro eco prodotta dal fiato del caso-evento, sono destinati a finire nel dimenticatoio nel giro, ottimisticamente, di qualche anno. Il mercato vive inoltre in una situazione di perenne voracità e di difficoltà a saziarsi, comportando così una continua e forzosa immissione di titoli al suo interno, che, dopo aver per poco tempo soddisfatto una determinata richiesta, scompaiono dalla circolazione.

L’involuzione della critica riguarda soprattutto due sue caratteristiche: l’interpretazione e la valutazione. Mentre la prima la si esercita prettamente sui classici e quindi viene svolta soprattutto in ambito accademico e scolastico, con qualche residuale potere della critica stessa, la seconda non è ormai più esercitata dalla critica. È ben risaputo infatti quanto siano al giorno d’oggi più importanti altre forme di comunicazione rispetto ad essa: un’ospitata in televisione o una promozione sui social riscuotono certamente più appeal che un testo critico. Come dicevamo, infatti, la sproporzione qui è a livello del pubblico: mentre il testo critico attirerà l’attenzione – sempre se lo merita – del ristretto e autoreferenziale ambito accademico, la promozione social o televisiva raggiungerà immediatamente migliaia, se non milioni, di persone. Senza contare che il giudizio di valore, ovvero stabilire se quel determinato atto di critica sia valevole o meno, venga certamente attuato nell’ambito accademico, ma quasi mai nell’ambito televisivo-sociale, con la conseguenza a tutti ben nota della creazione di discariche di pensiero come appunto sono i social networks. Come quindi muoversi? Sempre Daniele Giglioli afferma che:

Dissolte le sue funzioni istituzionali, venuta meno la sua autorevolezza e dunque il suo ambiguo e contraddittorio connubio con il principio di autorità, che a rigore dovrebbe costituire il suo opposto, alla critica si offre oggi l’opportunità di riavvicinarsi alla sua essenza (che è storica anch’essa, beninteso): un discorso a mani nude, senza tutele, senza garanzie, sorretto solo dalla sua tenuta interna (e cioè dal sapere, dall’immaginazione e dalla capacità argomentativa del critico). Un discorso che non ha più l’ambizione di insegnare, di guidare, di istituire canoni, e si affida piuttosto alla sua volontà di esercitare in pubblico una funzione esemplificativa: guardate che leggendo quest’opera è possibile fare questi pensieri, quest’esperienza, questa trasformazione di sé, e dunque posizionarsi diversamente, in quanto soggetti e non in quanto meri consumatori, in quella rappresentazione immaginaria del nostro rapporto con la realtà che è, diceva Louis Althusser, l’ideologia.[12]

Ancora una volta, la ricerca è di un senso originario della materia. Esiste un ciclo della vita circolare che caratterizza letteratura e critica: ad ogni dichiarazione di morte segue un rinnovato interesse per il nocciolo della questione, come sempre deve essere quando si tocca il fondo. Anche una studiosa come Carla Benedetti, che certamente non concorderebbe con molte diagnosi qui esposte, è d’accordo su dove si debba cercare una nuova forza della critica:

Se dunque la critica ha un ruolo (come io credo che abbia, e soprattutto in questa fase in cui molti la danno per spacciata) lo si deve cercare altrove. Non nella sentenza ma semmai […] nel lavoro puntiglioso di istruttoria, che non si stanca di aprire domande, di ridiscutere le premesse stesse su cui fonda l’odierno gioco della letteratura e i discorsi che si fanno attorno a essa, di attraversare i nodi teorici e interpretativi di un’opera e della produzione artistica in generale.[13]

Paradossalmente, i limiti della critica sono le sue stesse auspicate finalità: se da un lato si depreca la condizione della critica e della letteratura che oggi si fa sempre più inconsistente ed inafferrabile, dall’altro si cerca di ritornare ad un’essenza originaria della critica stessa, che in origine conserva questo carattere “dispersivo” e pervasivo. Non quindi una branca o un’istituzione, o un campo autoreferenziale, bensì un abito mentale, un atteggiamento. Questo merita un’ulteriore riflessione:

Mai come nella nostra epoca le tecnologie del potere erano state altrettanto saldate con l’estetico, e le sue ideologie altrettanto intrecciate con quelle artistiche e letterarie (l’ideologia della testualità, della morte dell’autore, della fruizione creativa permeano le teorie economiche e biotecnologiche molto di più di quanto si potrebbe immaginare, e l’idea della letteratura come spazio liberale senza conflitto, in cui tutto sarebbe ammesso assomiglia molto alle descrizioni ideologiche che ci vengono fornite dal mondo contemporaneo improntate a un pluralismo senza alterità). Questo potere non ha tolto all’arte le sue “specifiche” radicalità di pensiero, cioè il senso della complessità e della pesantezza del mondo, opposto a quello del valore differenziale e delle differenze estetizzate. Anzi questo è proprio ciò che ora le viene restituito triplicato in quanto a forza critica. L’estetizzazione della vita quotidiana ha solo tolto all’arte quella sfera deputata che la moderna società differenziata le ha attribuito per due o tre secoli e di cui l’arte può benissimo fare a meno, deve assolutamente fare a meno per tenere dietro alla sua sfida, saltando oltre la modernità e le sue strettoie.[14]

Se quindi la prerogativa funzione estetizzante che l’arte ha mantenuto per secoli è ora una funzione del potere, strettamente legata alle logiche tardocapitalistiche e del consumismo, all’arte stessa, e quindi alla letteratura e alla critica letteraria, non resta che tornare ad una concezione originaria e farsi abito mentale pervasivo. Laddove nella modernità tutto è estetico, nulla veramente lo è, e alla letteratura, tolta questa finalità posticcia, si offre l’occasione di un ritorno al senso originario, essenziale. Ciò comunque non deve coincidere con una marcata specializzazione della letteratura, né con una sua concezione funzionalistica: il rischio, che è quello in cui sempre più ci stiamo immergendo, è la creazione di un circuito chiuso, autoreferenziale. Una sorta di Repubblica delle Lettere 2.0 facilmente controllabile dal mercato. Bisogna invece adottare la tecnica delle acciughe quando fanno “il pallone” per sfuggire agli attacchi dei predatori: esistere in un banco dalle fattezze di corpo unico ma composto da una moltitudine di presenze coordinate in maniera osmotica, in modo da evadere i continui attacchi delle fauci del mercato.

  1. https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/411-letteratura-e-crisi.html.
  2. Ibidem.
  3. “La letteratura ha un prestigio sempre più scarso tra le molte e rumorose offerte del mondo attuale. La critica letteraria, che non è altro che l’interprete e la celebratrice della letteratura e delle sue funzioni edonistiche ma anche gnoseologiche, suggestive ma anche stimolatrici di smascheramento e di rinnovamento, è portata a declinare col declino della letteratura stessa”. C. Segre, Notizie dalla crisi, cit., p. 6. Cfr. anche F. Jameson: “La dissoluzione della sfera autonoma della cultura va immaginata piuttosto in termini di esplosione: un’immensa espansione della cultura nell’intero ambito sociale, al punto che si può dire che tutto nella nostra vita sociale – dal valore economico al potere statale fino alle pratiche e alla stessa struttura della psiche – sia diventato ‘culturale’ in un senso originale mai prima teorizzato.” In F. Jameson, Postmodernismo: ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi editore, 2007, p. 192.
  4. G. C. Ferretti, Il mercato delle lettere. Editoria, informazione e critica libraria in Italia dagli anni cinquanta agli anni novanta. Fatti e misfatti, Il Saggiatore, 1994 (1° ed. 1979).
  5. “Oggi il pubblico della critica è pressoché assente, essendo ridotto a quello istituzionale, interno alla scuola e all’università ed essendo venuta meno una società civile per cui la letteratura sia strumento fondamentale di educazione e di identità culturale (cosicché, quando l’interesse per il letterario si manifesti al di fuori delle istituzioni, tende ad assumere inevitabilmente le forme dell’intrattenimento spettacolare e del “divertimento” di massa). E senza pubblico la critica langue.” R. Luperini, Precettistica minima per convivere con “la crisi della critica” e provare a uscirne, in «L’ospite ingrato», 2004, 1, n. monografico: La responsabilità della critica, p. 49.
  6. Ivi p. 50.
  7. R. Luperini, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica, Laterza, 2010, p. V.
  8. “Una serie di fattori ha accelerato in anni recenti questa involuzione della critica accademica. Ne elenco rapidamente alcuni: i nuovi sistemi di valutazione svolgono una funzione coattiva dato che regolano la carriera accademica secondo criteri rigidamente specialistici e scientifici (o sedicenti tali) che ignorano l’aspetto interdisciplinare e sociale della ricerca e puntano esclusivamente sugli aspetti quantitativi e oggettivamente misurabili. Da qui il cosiddetto disciplinamento che la incanala nei recinti predefiniti delle singole microdiscipline, togliendole complessità, aria e sfondo. Infine lo stesso precariato che caratterizza la vita dei giovani ricercatori li costringe a elaborare di continuo microprogetti che li distolgono da progetti strategici e da lavori di lunga lena per indurli ad adattarsi di volta in volta a esigenze diverse a seconda delle varie università e dei diversi paesi dove cercano lavoro.” https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/411-letteratura-e-crisi.html.
  9. R. Luperini, Il dialogo e il conflitto, cit., p. 20.
  10. https://www.treccani.it/enciclopedia/oltre-la-critica_%28XXI-Secolo%29/.
  11. Ibidem.
  12. https://www.treccani.it/enciclopedia/oltre-la-critica_%28XXI-Secolo%29/. Corsivi nel testo.
  13. C. Benedetti, Il tradimento dei critici, Bollati Boringhieri, 2002, p. 67.
  14. Ivi p. 96.

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