La globalizzazione iniziò in Oriente?
Di Michele Sergio Tardio*
Per globalizzazione si intendono gli effetti della intensificazione degli scambi economico-commerciali su vasta scala con conseguente tendenza ad una interdipendenza delle economie nazionali che causa anche interdipendenze culturali, politiche e tecnologiche tra molti paesi.
Luke Martel ha coniato l’espressione “globalizzazione arcaica” per riferirsi agli eventi storici e alle relazioni tra diverse comunità del passato a cui seguì la diffusione di idee, di commerci e di norme sociali che resero questi paesi parzialmente interdipendenti. Se diversi Stati non dipendono gli uni dagli altri non è possibile che si influenzino a vicenda e continuerebbero a funzionare ed a svilupparsi in base alle proprie risorse ed alla propria produzione. Gli interscambi economici e i collegamenti commerciali sono le forze trainanti per le integrazioni culturali, perché vengono diffusi ed esportati molti altri beni quali religioni, filosofie e tecnologie.
Quando e dove iniziò questo processo? É noto che le classi dirigenti dei grandi imperi dell’antichità (Roma, India, Cina, Persia) erano consapevoli dell’esistenza di altre società e stabilirono contatti attraverso rotte marittime e terrestri, ma le influenze reciproche furono rarissime e ciascun paese conservò il proprio stile e modo di vita. Negli ultimi secoli del primo millennio si riprese la frequentazione di alcune di queste vie commerciali e si stabilirono durevoli legami commerciali e culturali tra India, Cina, Sud Est Asiatico, penisola Arabica ed Africa Orientale. Indubbiamente non era ancora la globalizzazione come oggi viene intesa, eppure questi mutamenti ne costituirono l’embrione: merci, persone, religioni, idee si spostarono in diverse parti del pianeta e ciò che accadeva in un luogo poteva influenzare profondamente gli abitanti di regioni lontane. Pure chi non si allontanava mai da casa subì gli effetti della globalizzazione arcaica. La riapertura delle vie commerciali fu causa di arricchimento intellettuale e di diffusione di nuove tecnologie, alcuni capirono e sfruttarono la possibilità di diventare ricchi, ma affrettarono l’asservimento di coloro che erano meno abili a sottrarsi alla dominazione, come quelli che vivevano nell’ Asia meridionale e insulare che abbandonarono le occupazioni tradizionali per dedicarsi al rifornimento dei consumatori cinesi di spezie e legni aromatici, o come i sudditi di re ed imperatori che furono costretti ad abbracciare la nuova fede a cui si erano convertiti i sovrani. Infatti un modo rapido per far progredire una comunità era quello di convertirsi alla religione di società più sviluppate come fecero il principe Vladimir dei Rus e Mahmud nell’Asia centrale che abbracciarono rispettivamente il cristianesimo ortodosso e la religione musulmana. Il risultato fu l’incremento intorno all’anno mille dei fedeli che aderirono alle principali religioni di oggi: l’Europa settentrionale ed orientale divenne cristiana, l’Asia centrale e l’Africa subsahariana musulmane ed il buddismo e l’induismo si diffusero nel sud est asiatico. Il mondo attuale è plasmato quasi come allora, in quanto le zone di influenza delle principali religioni sono simili a quelle dell’anno mille.
Le popolazioni del Sudest asiatico cacciavano animali, raccoglievano piante selvatiche e praticavano l’addebbiatura, cioè disboscavano una area e coltivavano il terreno, ma quando i campi si impoverivano di sostanze nutritive si spostavano in un altro posto (agricoltura itinerante). Erano politeisti e adoravano spiriti che risiedevano nelle grotte, sugli alberi, nelle rocce. La penetrazione indiana di quest’area iniziò con l’invio di missionari che operavano come consiglieri di re locali e leggevano e scrivevano ed insegnavano in sanscrito, tamil o in altre lingue indiane o utilizzavano lettere degli alfabeti indiani per registrare i suoni delle lingue locali. Questa penetrazione della cultura indiana si sviluppò tra il 500 ed il 900 d.C. ed è testimoniata da iscrizioni su pietra. In quell’epoca molte popolazioni si erano convertite all’induismo, tanto che regnanti indigeni costruirono straordinari monumenti tra cui Borobudur a Giava ed il tempio di Brihadisvara dedicato a Siva. Contemporaneamente monaci buddisti diffusero la loro fede nella penisola indocinese e qui si svilupparono modelli di governo tipo “Stati-Tempio” incoraggiando i sudditi ad associare i sovrani alle divinità del buddismo. Ne è testimonianza il complesso monumentale Angkor Wat in Cambogia costruito dai re Khmer che si convertirono a questa religione universale per accrescere il proprio potere. Ma questo modello attecchì pure in Asia settentrionale presso i Kitai per la credenza che i capi di talento (chakravartin era l’ideale buddista) fossero in grado di governare in virtù del sostegno divino. Questi concetti facevano parte anche dell’induismo. Diversi Stati-Tempio erano importanti intorno al mille: Srivijaya nella parte meridionale di Sumatra, Chola nel sud dell’India. I sovrani Srivijaya prosperavano tassando il traffico marittimo nello stretto di Malacca, come sappiamo da fonti ufficiali cinesi. Attraverso la Malesia un monaco di nome Yijing viaggiò dalla Cina all’India nel 671 d.c. dimostrando che i mercanti non erano i soli ad imbarcarsi su questi tragitti poiché anche i monaci si muovevano dappertutto per studiare in eminenti monasteri o per raggiungere, come consiglieri, re locali a cui offrivano incantesimi, iniziazioni e rituali che avrebbero aiutato i sovrani a rafforzare i loro regni. Sappiamo che gli oggetti offerti ai commercianti cinesi dagli abitanti di Srijaya erano corni di rinoceronte, zanne d’elefante, piante aromatiche come l’incenso o legno di sandalo e cristalli di rocca. Dopo il mille e per tre secoli i mercanti Chola furono attivi in un’area che includeva l’India meridionale, Malacca, la Thailandia e la costa della Cina. Il re Rajaraja I invase lo Sri Lanka ed attraverso il patrocinio dei religiosi dei templi induisti riuscì ad esercitare il potere soprattutto sulle aree agricole più fertili non riscuotendo direttamente le tasse ma tributando una quota della raccolta di riso direttamente ai templi che lui sosteneva. Con l’allargarsi dell’impero gli eserciti Chola saccheggiarono i monasteri buddisti per ricavare bottino da luoghi sacri di differente tradizione religiosa, come avevano fatto le milizie musulmane di Mahmud che dall’attuale Afganistan avevano attaccato i templi induisti dell’India settentrionale. Abbiamo poche fonti scritte (qualche iscrizione su pietra o su piatti di rame) riguardo ai Chola, perché scrivevano su foglie di palma che sono andate perdute, ma sappiamo che il re Rajenda nel 1025 sconfisse il re di Srivijaya e catturò molti elefanti e tesori incrementando le aree commerciali sotto il suo controllo. Alcune iscrizioni nei templi fanno supporre che le corporazioni dei mercanti furono cruciali per l’espansione dei Chola, in quanto erano specializzate in merci che garantivano profitti elevati: oro, pepe e piante aromatiche, cotoni di alta qualità di cui curavano la coltivazione, la raccolta, la tintura e la tessitura. Oltre il sudest asiatico viaggiavano fino alla Persia, l’Arabia e l’Africa per vendere e comprare un gran numero di merci: elefanti, zaffiri, cavalli, perle, rubini, cardamomo e canfora, seguendo la rotta monsonica nell’oceano indiano. Dopo il 1070 la potenza dei Chola iniziò a declinare ma le associazioni mercantili continuarono le proprie iniziative ed attive comunità tamil erano presenti nel XIII secolo in Birmania, Thailandia e nella città cinese di Quanzhou. Dalla archeologia marina sappiamo quali imbarcazioni solcavano quei mari: i dau fatti di tavole di legno africano, assemblate nella penisola arabica, armati di vele latine, le lashed-lug costruite con tavole tenute insieme da caviglie di fibre vegetali (tecnica di costruzione navale tipica delle isole asiatiche meridionali), le giunche cinesi caratterizzate dalla tavolatura inchiodata con perni metallici, chiglia piatta, poppa rigonfia, tre alberi con velatura steccata e scafo suddiviso in comparti cosicché in caso di falla sarebbe stata interessata solo una parte della nave.
I mercanti sia indiani che cinesi avevano bisogno che qualcuno organizzasse la raccolta, la lavorazione ed il trasporto delle risorse fino alla costa, perciò alcuni gruppi di persone cominciarono a raccogliere i prodotti nelle foreste e nelle miniere dell’interno, altri lo trasportavano a valle lungo i fiumi ed altri ancora caricavano le merci sulle navi d’alto mare. L’incremento della domanda aveva conseguenze dirette per le popolazioni indigene che si trovarono profondamente coinvolte in questo sistema per estrarre e trasportare merci per acquirenti lontani che non avevano mai visto; perciò anche senza gli apporti energetici attuali la globalizzazione trasformò comunque la vita di queste comunità che non si erano mai spostate dai territori natii.
Con la decadenza degli imperi indiani aumentò il numero di mercanti cinesi residenti nel sudest ed in tutta l’area si incrementarono le esportazioni di manufatti cinesi. Un elenco stilato da Zhou Dagan, inviato in Cambogia dall’imperatore Kubai Khan, segnala oggetti di stagno, pentole di ferro, vassoi laccati e di rame, pettini e ceramiche a dimostrazione della capacità dell’industria cinese di avere già imprese di grandi dimensioni in grado di produrre in serie. Nello stesso periodo il Vietnam, situato sull’importante arteria commerciale lungo la costa del Tonchino, iniziò a fornire cardamomo, resina di gommacurta, piume di martin pescatore, lacca, perle, pepe e legni profumati ai cinesi che vivevano a nord. Nel porto di Van Don si stabilirono in gran numero affaristi cinesi che influenzarono la popolazione locale che ne adottò il cibo, il tè e l’abbigliamento. L’economia globalizzata dell’estremo oriente prese forma nel corso di secoli e l’intensità di legami crebbe nel tempo man mano che i consumatori acquistavano sempre più prodotti originari dell’India, dell’Indonesia e dell’Indocina ma all’inizio del secondo millennio il mercato più importante divenne la Cina e l’intera regione si riorientò in modo da poterla rifornire.
Si stima che nell’anno 1000 d.c. la popolazione mondiale ammontasse a 300-400 milioni ed in Cina vivevano tra 100 e 120 milioni di individui, ovvero un terzo/un quarto dell’intera umanità. In percentuale i cinesi erano più numerosi di adesso. L’alta densità di popolazione in un mondo ancora poco popolato ci rende conto dei contatti internazionali estesi che i cinesi di tutti i livelli sociali ebbero e che coinvolsero non solo gli abitanti delle città portuali ma anche quanti vivevano nell’entroterra. Non si importavano manufatti, a parte i tappetini di malacca intrecciata dalla Malaysia, ma materie prime da trattare come avorio, corni di rinoceronte, perle, oro, argento e spezie che non si potevano coltivare in Cina quali noce moscata, cardamomo, pepe nero, noce di cocco e materiale per formulazione di profumi come l’oud estratto dall’aquilaria; questo albero cresceva nell’Asia tropicale continentale e serviva come base in aggiunta ad altre piante aromatiche per profumare ambienti, vestiti e persone. L’uso di queste fragranze, all’inizio limitato alle classi elevate, poi si diffuse in ogni ceto sociale. La richiesta di piante odorose crebbe a partire dal VI secolo ed interessò una base sempre più ampia di consumatori. Le navi che portavano merci nei porti cinesi erano dau di costruzione arabica o lashed-lug varate nelle isole del sudest asiatico, solo dopo il mille comparvero le giunche, navi più robuste per affrontare eventuali fortunali. Durante la dinastia Tang (618-907) le navi che attraccavano nei porti venivano ispezionate da funzionari che prendevano il 30% del carico e permettevano ai commercianti di vendere il restante 70%. Le stesse navi caricavano ceramiche, vasellame, e metalli preziosi per pagare i carichi di ritorno. In un relitto naufragato nel X secolo presso la costa di Giava sono state recuperate monete d’oro, monete cinesi di piombo (alcune con la data del 918), monete di stagno, lingotti di stagno e bronzo e soprattutto centonovanta chili di argento. In un altro relitto datato 970 vi erano ben seicentomila ceramiche e ciò ci rende conto di quanto fosse imponente il commercio con il sudest anche prima dell’anno mille. Con l’arrivo della dinastia Song si modificò il sistema fiscale: quando una nave arrivava in porto i funzionari addetti al commercio salivano a bordo per stimare il valore complessivo del carico e confiscarne il 10-20% in modo da ottenere direttamente gli articoli richiesti dal governo. Ma sulle importazioni di valore elevato come zanne di elefante, perle ed ambra grigia si proponeva un acquisto inferiore a quelli correnti di mercato, cioè l’imperatore aveva il monopolio su tutte le merci pregiate. Una terza tassa, con aliquote che variavano spesso, era applicata alle “merci grossolane”, ossia ai carichi voluminosi (es blocchi di legno odoroso) che poi potevano essere venduti agli acquirenti. Le merci erano pagate con monete cinesi che erano tonde con un foro in mezzo che permetteva di infilarle su una corda e tenerle insieme. Quando il bronzo fu sostituito da ferro le monete diventarono molto più pesanti tanto che per comprare un chilo di sale era necessario portare un chilo e mezzo di monete. Perciò nel 994 alcuni mercanti compirono il passo rivoluzionario di sostituire le monete di ferro con dei pagherò scritti su carta e dal 1024 i funzionari governativi iniziarono ad emettere danaro cartaceo. Furono i primi al mondo ma siccome circolò solo localmente l’effetto fu limitato e solo nel 1170 il governo Song istituì un sistema permanente di banconote cartacee sostenuto da riserve d’argento. I cinesi traevano grandi profitti dalla esportazione di tessuti e rotoli di seta di alta qualità e da manufatti di metallo che talora veniva venduto in lingotti sui mercati indiani, del medio oriente (Oman e Bassora) e nell’Africa Orientale. Il flusso costante di queste entrate serviva a finanziare soprattutto il commercio delle piante aromatiche. Via terra dal nord si importavano cavalli in grande quantità perché gli allevamenti delle steppe settentrionali fornivano destrieri veloci e forti. Le città costiere di Quanzhou (la moderna Canton), Guangzhou e Ningbo che traevano profitto dai commerci erano diventati porti internazionali ospitando numerosi residenti non cinesi: indiani che finanziarono la costruzione di un tempio induista, mercanti arabi che all’epoca costituivano la maggiore comunità straniera ed edificarono alcune moschee, la più importante fu la Moschea dei Compagni del Profeta. La prosperità delle città portuali si riversava all’interno ove gli abitanti superando l’agricoltura di sussistenza si dedicarono a produrre per il mercato canna da zucchero, riso glutinoso e fibre tessili come canapa e ramia oppure andarono a lavorare nelle miniere di rame, ferro e piombo utilizzando i guadagni per comprare cibo. Altra attività che assorbiva molta forza lavoro, in seguito alla globalizzazione, fu l’industria della ceramica che con i forni “drago” ad alta temperatura produceva ceramiche lucide molto apprezzate all’estero. In queste imprese, complesse come le prime fabbriche della rivoluzione industriale, era impiegato almeno il 7,5% degli abitanti. Però nonostante i benefici di cui godeva la popolazione locale si verificarono veri e propri progrom contro i mercanti stranieri colpevoli di arricchirsi alle spalle degli indigeni. Nel 979 ribelli cinesi a Guangzhou linciarono alcune migliaia di arabi, nel 996 al Cairo gli abitanti si rivoltarono contro i mercanti amalfitani ed a Costantinopoli nel 1181 furono trucidati i residenti veneziani e genovesi (“il massacro dei latini”). Con le dinastie imperiali mongole il commerciò continuò a fiorire, come riferito da Marco Polo che segnalava l’esistenza di diritti doganali: “d’ogni cose che vi viene le dieci parte l’una d’ogni cosa” “per le mercatie sottili si togliono il 30 per 100, del pepe 44 per 100 e delle mercatie grosse 40 per 100”, ma nonostante il pagamento delle tasse, spiega Polo, i mercanti realizzavano un tale profitto che tornavano con un altro carico. Quindi l’economia dell’intera regione del mar cinese e dell’oceano indiano era pienamente integrata prima dell’arrivo degli europei nel XV e XVI secolo che utilizzarono per propri fini tali vie commerciali. Faceva eccezione il Giappone, dove le relazioni estere ed il commercio erano severamente regolamentate. Vi era un solo ufficio commerciale a Fukukoa aperto agli stranieri i quali avevano bisogno di un permesso scritto per entrare nel paese.
Il mondo in cui vivevano i popoli a cavallo dell’anno mille differisce in tanti modi dall’attuale, soprattutto perché noi possiamo usufruire di attrezzature sofisticate mentre i nostri antenati non disponevano di alcuna meccanizzazione, tanto che, a differenza di oggi, i paesi tecnologicamente più evoluti avevano solo un piccolo margine di vantaggio sugli altri. Ma anche allora si mettevano a punto prodotti innovativi (ad esempio le ceramiche cinesi che non si riuscì a riprodurre altrove perché solo le fornaci cinesi raggiungevano alte temperature) che venivano portati nei mercati emergenti favorendo altre nuove opportunità con i crescenti contatti tra i popoli.
In conclusione la globalizzazione arcaica ci fa intuire come aprirsi alle diversità ed al libero scambio possa offrire arricchimento economico ed intellettuale anche a chi rimanendo a casa accoglie nuovi prodotti e nuove idee. Coloro che “erano aperti all’insolito raggiungevano risultati migliori di chi respingeva qualsiasi novità e ciò era vero nell’anno mille ed è altrettanto vero al giorno d’oggi” (Valerie Hansen).
*Medico-chirurgo, già direttore responsabile del Rep. “Trattamento Intensivo del Diabete e delle sue Complicanze” dell’Az. Ospedaliero-Universitaria di Parma e dopo il pensionamento libero professionista nelle specialità Diabetologia e Malattie Metaboliche.
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