Il nome della cosa
Di Federico Dazzi
Che il dialetto parmense sia (stato) una lingua viva è indubitabile: esso nasce da pulsioni e necessità soprattutto pratiche e legate alla vita di tutti i giorni. La sua, come per tutti i dialetti, è un’antichissima storia divisa tra le esigenze e il vissuto della pratica quotidiana e la necessità di un’istituzione dall’altra. Con la progressiva canonizzazione della lingua italiana, infatti, hanno ribollito sul territorio per secoli vari dialetti, tra cui il nostro. Perciò, soprattutto negli ultimi due secoli, c’è stata una frattura: a scuola si studiava l’italiano, ma fuori scorreva il dialetto, familiare e immediato. In questo periodo il dialetto resiste infatti come lingua naturalmente parlata dalla stragrande maggioranza della popolazione nell’ambito quotidiano, affiancata da una lingua italiana in crescente istituzionalizzazione per varie ragioni (crescente unità politica e culturale, diffusione dell’istruzione scolastica, mezzi di informazione e comunicazione di massa, mobilità geografica, industrializzazione, ecc.). Tecnicamente si è avuta una forma di diglossia, per cui nello stesso territorio due lingue (o in questo caso lingua e dialetto) sono convissute in un rapporto gerarchico e con funzioni diverse e definite[1].
Tra lingua e dialetto non esistono infatti chiare differenze strutturali, ma differenze semantiche, testuali e, soprattutto, funzionali. Questo oggi è ben visibile nel sopravvivente dialetto parmigiano, utilizzato da una minoranza ben caratterizzata sia anagraficamente che culturalmente (soprattutto chi ha vissuto il dialetto e le cose del dialetto, utilizzandolo come strumento di conoscenza e di rapporto con un mondo specifico, come vedremo). La sua funzione reale oggi è piuttosto marginale, e i più che meritevoli tentativi di non lasciarlo morire (pubblicazioni, eventi, Associazioni) sono sì fondamentali, ma nell’intento di conservarne, almeno, la memoria. La sua decadenza funzionale è dimostrata nel revival che ha subito negli ultimi anni dalle ultime generazioni. Se da una parte è meraviglioso che il dialetto scorra ancora tra i giovani, bisogna ammettere che questa contaminazione tra dialetto e un mondo (e quindi una lingua) con cui ha ben poco a che fare rivela azioni non sempre del tutto consapevoli. Come da tempo è rilevato:
[…] è sbagliato vedere nei giovani i portatori della futura comunicazione dialettale, perché essi non cercano di promuovere il patrimonio dialettale, bensì manifestano, anche tramite la competenza dialettale, il bisogno di una nuova varietà di italiano a livello generazionale. Per questo motivo non si può parlare di recupero della dialettalità. Questa situazione testimonia piuttosto una dialettalità in crisi, che sta per essere immersa in una varietà sub-standard nazionale perché il lessico dialettale ha apparentemente perso la sua originaria funzione e viene aggiornato in un contesto italianizzante.[2]
D’altra parte, se ciò rimane un fatto, è comunque auspicabile che simili iniziative continuino ad esserci e soprattutto ad essere finanziate: se non altro perché se da una parte si è persa la funzione del dialetto e quindi la sua utilità pratica, bisogna continuare a studiarlo e a diffonderne la conoscenza perché non muoia del tutto. Essendo un fatto umano, una cosa viva, anche il dialetto a cui siamo affezionati è destinato a scomparire: ma non per questo anche ad essere dimenticato. Bisogna essere consapevoli delle possibilità di interazione con esso, e continuare a tramandarne la memoria: il dialetto ci insegnerà anche a vedere i limiti e i difetti della nostra età, e perciò, in questo senso, ci sarà sempre utile.
In effetti, se ripartiamo dalla perduta funzionalità del dialetto, possiamo comprendere come esso interagisca con il nostro modo di vivere di oggi, svelandone limiti e problemi. Come dicevamo, qualche tempo fa esisteva un “tempo” per l’italiano e uno per il dialetto. Mentre a scuola si studiava la lingua italiana, a casa e in compagnia scorreva il dialetto. E così, proprio perché il dialetto viveva nella vita, si è sempre nutrito in un alveo schietto, dove la gente non aveva tempo da perdere né parole da sprecare. Per questo il dialetto è importante: perché ci ricorda che lo spreco è una caratteristica fondante della nostra modernità.
Ciò è dimostrato dal fatto che oggi il dialetto non viene quasi più utilizzato (non a caso questa parola ci viene in aiuto, perché il dialetto è uno strumento, e perciò pratico, utile, utilizzabile) in favore di un linguaggio, giustamente, sempre più globalizzato, ma, a volte, un po’ inutile e fumoso. Questo ci manca: il contatto della lingua con le cose, la sua potenza originaria e il suo essere natura e creazione dell’umano.
Come si avrà modo di notare leggendo la Toponomastica parmense di Virginio Mazzotti presente nel nostro Archivio, molti luoghi, paesi, vie, espressioni che nominiamo e utilizziamo (in questo caso, inconsapevolmente) tutti i giorni nascono dal necessario rapporto tra parole e cose. Un nome vuol dire che in un determinato posto è successo qualcosa, o che un determinato posto ha una caratteristica evidente e unica. Insomma, dare un nome significa: diamo un significante ad un significato, d’altronde. Dare un nome è quindi un atto di creazione, e come tale deve essere considerato: un atto pratico di vita. Perciò c’è sempre una ragione dietro ad un nome e una necessità strettamente attiva e pratica, come vedremo, nell’atto di nominare, soprattutto nel dialetto.
Andare quindi alla fonte delle parole, a ricercarne la nascita e gli sviluppi, è importante per ricordarci che il linguaggio non è mai pura astrazione, ma sempre un complesso rapporto di conoscenza del mondo, un corpo a corpo con le cose. Stravolgerlo, forzarlo o sorvolarlo equivale a violare le cose stesse, e quindi a inquinarle. L’ecologia è negli ultimi tempi una sfida per il futuro, ma non ci dimentichiamo che essa passa anche da qui, dal linguaggio e soprattutto dal dialetto. Se il nostro rapporto con le parole è inquinato, lo sarà anche quello con le cose: per questo lo studio del dialetto e della toponomastica si rivela come uno strumento fondamentale, ma mai considerato, per formare delle menti ecologiche, rispettose di ciò che ci è dato.
In origine il nominare aveva uno scopo apotropaico, e dare un nome alle cose equivaleva a dare un senso a ciò che non lo aveva: per questo il nome aveva una funzione molto più potente di oggi. In questo senso il dialetto è fondamentale perché rappresenta l’ultimo scorcio di un’età che conserva la potenza mitica del linguaggio, capace di dare forma alla sostanza e sostanza alla forma in maniera non aleatoria. Rapportandosi in modo univoco, non ambiguo con il mondo circostante, il dialetto chiama le cose in modo deciso, con la saggezza rustica di chi sa pesare le azioni, e, in questo caso, le parole. Esso, forte del suo senso pratico, ha preso in prestito locuzioni che ben si adattavano alla funzione del suo linguaggio mostrando un evidentissimo rapporto tra la parola e l’utilizzo pratico del referente: così capiròn, “caldaia”, dal verbo latino càpere, “contenere”, a significare un recipiente di largo contenuto; al piò, l’aratro, discendente direttamente dal greco plòion, “prua”, per la sua forma caratteristica, letteralmente “nave che solca la terra” (cito sempre dalla Toponomastica del Mazzotti); sabogòn, intraducibile in italiano, riferibile a una persona che cammina male, viene dal celtico bogha, letteralmente “ceppo dei piedi”; trifola, “tartufo”, dal greco triphé, “delizia”, “cibo succulento e profumato”; gälabrüša, la brinata invernale, deriva dal greco gala, “latte”, e brùzein, “spumeggiare”, o bruòein, “coprire di schiuma”: quindi “schiuma di latte”. In questi casi di derivazione antica è già chiaro come l’utilizzo strettamente pratico di un oggetto o le sue caratteristiche prettamente fisiche siano il viatico prediletto per la diretta assimilazione nel dialetto parmense. Il dialetto rimane insomma una lingua prettamente fisica, di contatto, aliena dall’eccessiva astrazione e dall’uso ideologico del linguaggio.
La toponomastica ci serve anche per riscoprire il valore simbolico del linguaggio. Il mondo naturale, di tutti i giorni, è spesso preso a simbolo di caratteri, situazioni e vicende: così nasce Strepeto, paese del comune di Bedonia, perché la sua terra era povera e non vi erano che sterpi e rovi (in origine infatti era Sterpeto, poi mutato per metatesi); anche la famosa Ghiaia prende il suo nome quando il torrente Parma, che un tempo vi scorreva, si ritirò e formò un’ampia zona secca.
Ricercare il perché dei nomi e la loro storia si figura quindi come un’importantissima strada per riprendere coscienza dell’utilizzo del linguaggio nella sua forma più pratica, quella, in fondo, più autentica. Il territorio parmense è stato nei secoli visitato da svariate popolazioni: greche, latine, francesi, inglesi, tedesche. Ognuna di loro ha lasciato un segno, che oggi rimane nel nome di un luogo o di un paese, o addirittura nel dialetto, che si è appropriato di forme straniere e ne ha fatto parole proprie.
É chiaro che una lingua così sanguigna e in strettissimo rapporto con le cose come il dialetto parmense perde moltissimo valore nel momento in cui non la si utilizza più. È d’altronde realisticamente impossibile, oltre che sbagliato, tentare di sperare in una sua resurrezione nel parlato: come ho cercato di spiegare, una lingua segue un personalissimo rapporto con le cose, ed è assurdo pensare di poter forzare questo processo in una direzione o nell’altra. Spariranno, con le lucciole, anche le cose del dialetto, e sparirà perciò anche il suo parlare così sgraziato, a volte, ma teneramente onesto. Quel giorno saremo tutti un po’ meno pratici della vita.
- Per essere precisi, negli ultimi decenni il fenomeno è più vicino alla dilalìa, in cui la differenziazione degli ambiti d’uso delle due lingue è meno netta. Nel nostro caso, l’italiano è utilizzato sempre più anche nei contesti informali, prima appannaggio quasi esclusivo del dialetto. ↑
- E. Radtke, Varietà giovanili, in Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, a cura di A.A. Sobrero, Laterza, 2014, p. 214. ↑
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