La medicina al bivio: fra crescita dimensionale e nuovo patto di cura
di Marco Ingrosso
La medicina percepita nella fase pre-Covid
La percezione della medicina da parte della popolazione italiana è profondamente cambiata durante il periodo di diffusione della pandemia da Covid-19. Se facciamo un breve riepilogo dello stato dei rapporti prima di tale ‘evento catastrofico’, vediamo che il dibattito era spesso centrato su uno scetticismo più o meno diffuso circa il grado di credibilità da accordare alla medicina, ma anche sul grado di fiducia da accordare al medico (e più in generale alle competenze esperte) come adeguato esecutore e traduttore dei saperi medici. In altri termini, si passava da una sottovalutazione del sapere medico, quasi da assimilare all’opinione di qualunque voce tratta da internet, ad una sopravvalutazione delle mirabolanti promesse di una medicina onnipotente e salvifica, spesso accompagnata però da una preconcetta diffidenza circa le capacità dello specifico medico di saper applicare adeguatamente tali infallibili saperi.
Le cronache erano inoltre sempre più piene di notizie sulle violenze perpetrate nei confronti di sanitari e ambienti medici, in parte spiegabili col degrado generale della convivenza civile, ma altresì riconducibili a diversi fattori specifici, quali i disservizi nel funzionamento dei servizi, il degrado degli ambienti di cura, la mancanza di comprensione e comunicazione nei confronti dei pazienti, i timori generati dall’invadenza giudiziaria che determinavano un orientamento sempre più ‘difensivo’ da parte della classe medica, fino al paradosso di ritenere la medicina infallibile e quindi di rifiutare violentemente il ‘fallimento’, da addebitare allo specifico medico o al personale sanitario tutto. La violenza, a sua volta, era la punta estrema e incontrollata di una più generale trasformazione culturale-antropologica del soggetto post-moderno che non accettava più di incarnare la tradizionale figura di ‘paziente’ (debole, passivo, fatalista), ma si era trasformato in ‘esigente’ 1, ‘im-paziente’ 2 o che semplicemente cercava un nuovo posizionamento come ‘persona in cura’, co-produttore e collaboratore del sistema di cura 3. Orientamenti questi poco compresi e poco accolti dall’ambiente sanitario, sempre più eterodiretto dal management e dai protocolli terapeutici, affascinato dalle tecnologie, spesso autoreferenziale per lunga abitudine culturale o per potere sociale. Si argomentava dunque che il patto di cura era fortemente compromesso e aveva bisogno di interventi urgenti che partivano da un ripensamento sia della figura del medico 4 sia dell’epistemologia medica 5, nonché da una rilevante modifica della gestione, comunicazione e organizzazione sanitaria 6.
Le trasformazioni radicali durante l’evento-coronavirus
La percezione sociale della medicina, tuttavia, è profondamente cambiata nel corso del traumatico periodo di diffusione galoppante del Covid-19. In primo luogo, la medicina è tornata ad essere ascoltata attraverso suoi autorevoli rappresentanti. Ben presto l’alone di scetticismo che l’aveva precedentemente contornata si è dissolto come neve al sole. I pochi irriducibili no-vax, magari loro stessi contagiati, hanno cercato di tenere le loro posizioni, ma sono stati travolti da un’ondata di ludibrio generale. Subito dopo si è accentuata, per un po’ di tempo, la posizione massimalista di sopravvalutazione della medicina: molti speravano che i nuovi taumaturghi avrebbero presto risolto la partita dall’alto del loro sapere. Vi è anche chi ha parlato di una sorta di sostituzione della religione, resa silente dal divieto di celebrazione, con la medicina, circondata dagli onori e dalle attese di tutta la popolazione che faceva ‘mea culpa’ per non aver finora abbastanza ‘creduto’ (e quindi investito) nei nuovi demiurghi.
Tuttavia anche questa fase si è presto dissolta: la medicina ha mostrato la propria impotenza, la propria non-conoscenza, la pluralità di voci e opinioni che la abitavano. Sia gli ambienti medici sia la popolazione hanno così dovuto fare un lungo esodo, una traversata del deserto, irto di spine e abitato da serpenti velenosi, per arrivare ad una posizione di debolezza, relatività, di Chirone ferito. La medicina non aveva magicamente in tasca la soluzione di tutti i mali, ma piuttosto si metteva a fianco della gente con gli strumenti che aveva, magari anche a mani nude (come molti medici di base), ma con tutto l’impegno umano, conoscitivo, esplorativo che poteva esprimere. Improvvisamente il medico si è rivelato ‘umano, troppo umano’ e non chiuso nella torre d’avorio, si è messo a fianco di pazienti in condizioni critiche, ha parlato con voci rotte dalla stanchezza, si è gettato nella mischia (quanti pensionati e giovani specializzandi si sono sentiti chiamati a ritornare ‘in prima linea’?), ha fatto gruppo (superando distinzioni di casta e ruolo, ma costituendosi come team curante). Alcuni tecnici superspecializzati hanno momentaneamente rinunciato alle loro abilità per ridiventare semplicemente medici nei reparti d’urgenza neo-costituiti o per umilmente mettersi a fare da collegamento fra familiari (impediti di entrare) e pazienti ricoverati (testimonianza di alcuni Direttori generali e Direttori di reparti Covid).
Abbiamo quindi rivisto una medicina ‘eroica’ nei comportamenti dei suoi operatori, ma senza l’aura dell’infallibilità. Una medicina ‘sorgiva’, come forse non si vedeva dai tempi mitici dei suoi inizi ottocenteschi. E abbiamo visto una organizzazione del SSN che ha rotto molte barriere burocratiche procedendo a forti cambiamenti strutturali e utilizzando più intensamente le tecnologie digitali per fornire servizi agli utenti (es. ricette senza recarsi dal medico).
Certo, non sempre la comunicazione è stata adeguata e conseguente, ma almeno si è cercato di comunicare, di essere più trasparenti, pur nella contraddittorietà di certe dichiarazioni, spesso non fondate e smentite dal procedere dei processi diffusivi (e recessivi) del virus. Si può dire che anche queste contraddittorietà sono state pedagogiche per il pubblico. La medicina, nonostante la scientificità dei suoi procedimenti selettivi e valutativi, è sempre impastata di considerazioni relative al caso, alla situazione, è influenzata dal contesto e dalle credenze dei suoi esponenti, come è emerso ripetutamente in questo gigantesco e traumatico esperimento sociale.
Si potrebbe quindi affermare che il messaggio più forte che è venuto dagli ambienti medici e sanitari in questa pandemia è stato: ‘Non ti lascio solo, mi occupo di te al massimo, per come posso e con gli strumenti che ho, cercandone incessantemente dei nuovi e migliori’.
Per contro, si diceva di una vera e propria ‘conversione’ del pubblico che è passato ad una ‘fede’ non più scettica e nemmeno miracolistica, ma più matura e consapevole. Una fiducia che non ha mancato di organizzarsi in comitati di familiari (laddove si sono perpetrate gravissime sottovalutazioni a danno degli anziani ricoverati), pressioni nei riguardi dei Sindaci a farsi rappresentanti attivi e partecipi della comunità, sollecitazioni ai media per soddisfare un interesse diffuso per i destini dell’organizzazione sanitaria, richieste alle strutture sanitarie (e socio-sanitarie) di non abbandonare la cura e la comunicazione verso i pazienti e con i familiari.
Il SSN al bivio: espansione dell’esistente o nuovo patto di cura?
La situazione di eccezionalità ha quindi prodotto degli effetti insperati e imprevisti che hanno originato una situazione che potremmo definire aperta e potenzialmente creativa. Tuttavia è urgente dare una risposta a questa fase di ‘latenza generativa’, pena vederla collassare su sé stessa e riaprire problematiche e divisioni non sanate. La fase di convivenza col Covid (fase 2 e 3) apre delle finestre temporali che possono essere sfruttate in due modi divergenti: a) per ‘portare all’incasso’ la nuova fiducia e prestigio sociale acquisiti dai servizi sanitari, crescendo in uomini, mezzi e peso sociale; b) proponendosi di definire un nuovo patto-alleanza di cura, facendo tesoro delle nuove “evidenze” e dando risposte ai problemi di fondo da tempo inevasi.
Teoricamente le due cose non si contraddicono: che ci sia bisogno di nuovo personale è noto ed evidente, che ci sia bisogno di investimenti e nuove strutture, pure. Tuttavia la prima strada rischia di tradursi (per scelta o di fatto) in una visione monocratica, di centralità medica, di ripristino di un orientamento centralista-statalista che lascerebbe irrisolti i temi dell’integrazione socio-sanitaria, della partecipazione della popolazione, della sostenibilità sociale e finanziaria. In tal caso, si può prevedere che il ‘tesoretto’ acquisito si disperderebbe velocemente in mille rivoli, ripresentando le problematiche gestionali e relazionali non sanate e magari acuite dalle dinamiche socio-economiche post-Covid.
Se invece si vuole provare a intraprendere la seconda opzione, è necessario essere consapevoli che bisogna, in certo senso, andare oltre la struttura pubblico-statale del SSN. Bisogna infatti coinvolgere i territori facendoli diventare comunità organizzate, competenti, responsabilizzate. Si tratta di una occasione unica e storica che non può essere sprecata con una visione meramente accrescitiva, ma piuttosto di trasformazione radicale e paradigmatica, culturale e organizzativa. In altri termini, vi è bisogno di una discontinuità creativa che, attraverso nuovi accordi con un terzo luogo ‘comune/comunitario’ – che è tutto da scrivere e da costituire – possa fornire le gambe di un patto dai contorni percepibili che possa tenere assieme e far cooperare diverse esigenze, diversi attori, diverse risorse aprendo ad uno scenario fortemente innovativo di cui nel nostro Paese abbiamo grande bisogno.
Al contempo mi pare decisivo non ripristinare delle relazioni di cura asimmetriche e gerarchiche che sarebbero oggi ancora più deludenti, ma procedere verso una prospettiva di partnership avviando le modifiche organizzative oggi possibili e orientando anche in questa direzione le nuove leve che, sperabilmente, verranno immesse.
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