Oltre la partecipazione: il coinvolgimento delle comunità locali nei servizi socio-sanitari territoriali

di Marco Ingrosso 

La partecipazione come principio istitutivo del SSN

leggi la prima parte

È da tempo che il principio della partecipazione dei cittadini alla programmazione e gestione dei Servizi sanitari pubblici è stato posto. In Italia fin dalla legge istitutiva del SSN (833/1978) e in vari passaggi chiave successivi (DL 502/1992, L. 229/1999, L. 328/2000). Nello stesso anno la Conferenza OMS di Alma Ata (1978) indicava che l’assistenza primaria richiedeva la partecipazione dei pazienti e delle comunità nella pianificazione, organizzazione e controllo delle strutture sanitarie a livello locale (oltre che nazionale). I vantaggi attesi di questa opzione erano molti, sia a livello individuale dei cittadini (empowerment) sia a livello comunitario, ma in particolare si sentiva la necessità di un riequilibrio di potere (totalmente unilaterale quello manageriale e quello professionale), di rappresentare un punto di vista e una parte essenziale della relazione sanitaria, di dare ascolto a chi finanziava il servizio stesso.

Purtroppo, nonostante le ‘buone intenzioni’ ripetutamente richiamate negli anni, questo principio costitutivo del SSN è ben lontano dall’essere stato attuato. In particolare la minimizzazione della partecipazione degli Enti locali alle decisioni sanitarie – a partire dalla L. 502/1992 – ha portato ad un difficile coinvolgimento dei territori.

Dopo il cambio del Titolo V della Costituzione [2001], alcune Regioni (circa la metà) hanno varato norme che permettevano a rappresentanze associative di partecipare alla redazione di Piani di salute e di zona o di essere rappresentate nei Comitati consultivi misti, ma tali opzioni si sono rivelate piuttosto asfittiche e ben lontane dal raggiungere dei risultati di effettivo coinvolgimento della popolazione nelle scelte.

Forse gli unici risultati concreti sono venuti dall’impegno di Associazioni di cittadinanza (come Cittadinanzattiva – ex Tribunale dei diritti del malato -), Associazioni di pazienti e di familiari, Gruppi di mutuo-aiuto, Associazioni di volontariato e civiche, Comitati di quartiere che, nei vari ambiti di attività, hanno cercato di tenere alta la bandiera dei diritti e della responsabilizzazione dei cittadini-pazienti nei confronti delle autorità politiche e sanitarie.

Cittadini, volontari, pazienti

Negli ultimi anni si è ricominciato a parlare di partecipazione in ambito di sanità. Ad esempio la Regione Toscana ha varato una LR (75/2017) che istituisce un nuovo sistema partecipativo in ambito regionale basato su un ‘Consiglio dei cittadini per la salute’ e dei ‘Comitati di partecipazione aziendali e di zona distretto’. La partecipazione a tali comitati è riservata ad associazioni di volontariato, tutela e promozione sociale, aventi come ambito di riferimento il settore sanitario e socio-sanitario, che fanno domanda di essere incluse nei comitati. Il Consiglio istituito a livello regionale, presieduto dall’Assessore competente, riunisce delle rappresentanze dei comitati aziendali e di zona oltre ad altri comitati costituiti su specifiche tematiche. Anche la Regione Emilia Romagna ha puntato sul Terzo Settore istituendo un Osservatorio e una Conferenza regionale (LR 20/2017). In modo simile, ma con strumenti diversi si sono mosse altre regioni, a cominciare da Lombardia, Veneto e Lazio.

Sul piano dell’associazionismo, agli inizi del 2019 si è realizzata una rilevante iniziativa, partita da Cittadinanzattiva, che ha mobilitato decine di associazioni di pazienti e consumatori, ma anche molti studiosi, operatori ed esperti, dando vita ad un documento finale: ‘Consultazione sulla partecipazione civica in sanità’. Come suggerisce il titolo, l’ottica di riferimento del documento è quella della democrazia diretta e dell’attivismo civico. Il documento rileva che la partecipazione civica è largamente incompiuta in Italia, mentre segnali migliori vengono dal livello europeo e dall’esperienza di altri Paesi. Il documento sottolinea inoltre che la partecipazione civica «può portare benefici anche nella relazione di cura tra cittadini/pazienti e professionisti sanitari», in particolare i cittadini divengono più consapevoli e capaci, aumentano i loro contatti sociali e le loro competenze, ma può anche essere utile ad «aumentare la gratificazione e la capacità di lavorare insieme all’interno di un servizio e ottimizzare il rapporto costi-benefici del servizio stesso».

Nel 2017 è stata varata, inoltre, una ‘Carta Persone non solo pazienti’, sottoscritta inizialmente da sedici Associazioni di pazienti e poi firmata da molte altre, che rivendica una centralità della persona nelle politiche e una partecipazione dei ‘pazienti esperti’ agli organi decisionali dei servizi sociali e sanitari. Nel 2018, in occasione di un convegno nazionale sulle relazioni di cura tenuto all’Università di Ferrara, è stata firmata da un centinaio di studiosi ed esperti di varie discipline la Dichiarazione di Ferrara sul Ruolo delle Persone in cura che mette al centro il tema delle relazioni di cura come titolo partecipativo e avanza una serie di proposte politiche, gestionali e formative.

Le diverse logiche e arene partecipative

Si devono, a tal proposito, avanzare alcune riflessioni di fondo su quale siano le arene in cui si muovono i servizi sociali e sanitari e quali siano i titoli di partecipazione a tali arene. Diversi autori hanno infatti evidenziato come vi siano attualmente almeno tre opzioni che insistono sulla figura del soggetto curato: quella della cittadinanza, quella del consumatore di prestazioni e quella del co-produttore, ossia della collaborazione fra i partecipi alla relazione terapeutica alla creazione del bene salute. François Vedelago 1 ha esteso questa analisi mettendo in luce che, come i membri della società contemporanea, rivestiamo potenzialmente diversi abiti e sviluppiamo ruoli conseguenti allorché partecipiamo a diverse arene in cui si decidono vari aspetti degli interventi socio-sanitari, in particolare le politiche vengono decise nell’ambito dell’arena politica dove abbiamo titolo come cittadini, all’interno del sistema giuridico abbiamo titolo come beneficiari in una relazione contrattuale con le istituzioni, abbiamo poi un ruolo di clienti-consumatori allorché ci troviamo all’interno di una prestazione negoziata sul mercato, siamo utenti di comunità in quanto facciamo parte di reti sociali territoriali, pazienti allorché siamo definiti dal sapere e dall’ottica medica, utenti professionalizzati allorché siamo integrati dentro processi di co-costruzione dei beni (o output) sanitari.

Nella partecipazione, intesa come cittadinanza, tutti questi diversi abiti vengono fusi insieme e sussunti in quello tipico dell’arena politica o di quella giuridica (diritti/doveri). Altre associazioni sembrano invece partire dal rivendicare un ruolo diverso come partner delle relazioni di cura, non più pazienti ma co-responsabili, collaboratori dei sanitari, co-produttori e co-curanti. Un’altra corrente, sempre più rilevante 2, indica inoltre che anche il titolo di residente/abitante, ossia associato ad una comunità locale, spesso partecipe di reti e associazioni vicinali, dovrebbe essere valutato come titolo partecipativo nella gestione dei servizi territoriali, dato che solo l’impegno statale non basta più ad affrontare la complessità delle articolazioni e dei processi di cura.

Se utilizziamo questo sguardo legato alle cerchie e alle relazioni sociali (originariamente proposto da Georg Simmel), possiamo vedere che a livello macro è pertinente la dimensione politica, giuridica e etico-culturale, mentre a livello di comunità locale valgono gli aspetti di partecipazione al tessuto e alle reti/associazioni civiche, e che nell’incontro diretto fra sanitari e persone in cura vale il ruolo di portatore di conoscenza ed esperienza come persona sana o malata. Uno dei basilari problemi della partecipazione è che associazioni nate avendo come riferimento le scelte di policy hanno difficoltà a porsi ad un livello “di base” o ad uno ‘comunitario’, mentre viceversa, associazioni di pazienti, nate solitamente nell’ambito di servizi e relazioni di cura, faticano a rappresentare i cittadini ai livelli decisionali regionali e nazionali. Inoltre, manca un riferimento alla presenza comunitaria territoriale. Di massima, quindi, si può affermare che sia necessario andare oltre una partecipazione di pura cittadinanza per articolare la presenza attiva a tutti e tre i livelli in cui si sviluppano i complessi processi di promozione della salute, sostegno sociale, cura e riabilitazione.

Motivazioni e risorse dell’  ‘essere parte’

Ma vi sono anche due ulteriori problemi: quello delle motivazioni a partecipare e quello delle risorse. Nel primo caso si è fatto riferimento al solidarismo etico, al senso civico, alla responsabilità per il bene comune fondati quasi sempre su una disponibilità di tempo volontariamente messo a disposizione. Tuttavia, le dimensioni che possono motivare l’impegno attivo a vari livelli possono anche essere quelle di chi ha finanziato i fondi sanitari, di chi chiede che ci sia una gestione oculata delle risorse e dei beni, di chi vorrebbe che sia garantita una certa qualità dei servizi vicinali, di chi pensa che debbano essere affrontati i casi più difficili e problematici che lasciano le persone e famiglie in grave difficoltà, di chi vuole affrontare problemi sociali e sanitari che toccano molte persone e ambienti producendo emarginazione e diseguaglianze e così via.

Quasi sempre, inoltre, la partecipazione si scontra con problemi di impotenza ad incidere, di inefficacia dell’azione che spesso portano all’abbandono, alla delusione. Non si hanno risorse a disposizione, non si ha peso nelle decisioni, non si è titolari di un potere riconosciuto, non si ha potere contrattuale. Ovviamente l’aspetto motivazioni e quello del potere sono strettamente legati, mancando il secondo (o essendo molto difficile crearlo attraverso i movimenti sociali) vengono spesso a cadere anche le motivazioni. Si crea quindi scetticismo, allontanamento dalla partecipazione, sfiducia sociale nei decisori politici e anche nelle professioni che gestiscono un potere unilaterale senza curarsi degli interlocutori abilitati a vario titolo a ‘essere parte’, ossia essere ascoltati e contare.

Ovviamente non è questa la sede di una trattazione e proposta generale sul tema. Basti però dire che per uscire dalla partecipazione bloccata o volontarista è necessario attribuire alle rappresentanze ai vari livelli dei compiti precisi, rendere disponibili delle risorse adeguate, stabilire dei meccanismi di concertazione obbligatori ed efficienti. In particolare è necessario che vi sia un’adeguata rappresentanza nazionale di cittadinanza capace di influire sui Piani sociali e sanitari, esercitare un’adeguata capacità di analisi, di valutazione, di comunicazione alla popolazione sullo stato del SSN e sulle politiche sociali e sanitarie. Tale rappresentanza deve poter indicare esperti da inserire in organi come il Consiglio Superiore di Sanità e l’AIFA, deve poter disporre di un Centro studi capace di mobilitare intelligenze multidisciplinari in termini di proposta, progettazione, formazione, comunicazione. Per fare ciò deve essere finanziata con una tassa di scopo volontaria (tipo 8 per mille) decisa dai cittadini.

Per quanto riguarda la rappresentanza regionale negli organi di pianificazione e nell’Agenzia regionale per i servizi sanitari e sociali dovrebbe poter mettere insieme delegati inviati dal terzo settore, dall’associazionismo dei pazienti e da rappresentati dei residenti nei territori.

Una Casa della salute inserita nella comunità locale

Il vero nodo si pone tuttavia a livello di territori dove rimangono separate le competenze sociali (ASP e Servizio sociale) da quelle sanitarie (ASL) e dove la rappresentanza dei residenti e persone in cura è quali nulla e non coinvolge in alcun modo la popolazione. Un’ipotesi di lavoro potrebbe essere la creazione di enti di gestione di dimensione di zona/quartiere, tipo ‘Case della salute’, dotati di una certa autonomia finanziaria e gestionale alle quali le rappresentanze della popolazione e dei pazienti potrebbero partecipare con un ruolo di valutazione e orientamento generale (non organizzativo ed esecutivo). Tali rappresentanze potrebbero convogliare verso la Casa della salute di zona lasciti e donazioni della popolazione residente, raccolte fondi su progetti, donazioni etiche di aziende, promuovendo progetti finalizzati particolarmente sentiti dalla popolazione e urgenti in zona, ma scarsamente o per niente coperti dai LEA.

In tale ipotesi organizzativa si darebbe al territorio una struttura molto più forte, attrezzata e integrata dell’attuale configurazione ponendo al centro le cure primarie, la medicina della persona, l’assistenza domiciliare, la salute mentale, la riabilitazione, la specialistica territoriale e creando ponti con le strutture ospedaliere e di alta specialità attraverso percorsi di cura fortemente monitorati sul piano tecnico e su quello relazionale. Oltre al personale e ai fondi pubblici (sia di provenienza sanitaria sia sociale-comunale) ci potrebbe essere un apporto aggiuntivo di fondi provenienti direttamente dalla popolazione e dalle imprese del territorio. Ciò potrebbe permettere la costituzione di un settore apposito per la promozione della salute e il sostegno alla cura di sé mobilitando centri sportivi, palestre e operatori di salutogenesi e stili di vita sani convenzionati con cui concordare prezzi calmierati o accessi gratuiti capaci di estendere le pratiche di benessere anche a strati sociali disagiati. Il territorio potrebbe diventare inoltre un luogo di ‘formazione alla cura’ per le giovani generazioni (e non solo) inseriti in vari progetti e iniziative che tale Case potrebbero avviare.

Pare evidente che una rappresentanza legata al territorio, dotata di risorse e iniziative, capace di giocare un ruolo di conoscenza, ascolto e segnalazione, valutazione e orientamento costruirebbe ponti solidi nei confronti della popolazione locale che potrebbe riconoscere come propri i servizi territoriali integrati ed essere responsabilizzata della loro buona gestione.

1 Vedelago F. (2016), Le dimensioni del ruolo sociale dell’utente attore, in Vicarelli G., a cura, Oltre il coinvolgimento. L’attivazione del cittadino nelle nuove configurazioni di benessere, Il Mulino, Bologna.

2 Sthrol H. (2008), L’Ètat social ne fonctionne plus, Albin Michel, Paris.

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