Non dire fratelli se sono sorelle- Dialogo sulla lettera ‘Fratelli Tutti’
di Rita Torti
Fratelli tutti: e dove sono le sorelle? Il titolo dell’imminente enciclica di papa Bergoglio, reso noto qualche settimana prima del 3 ottobre, aveva da subito suscitato questa domanda, posta anche in forma pubblica da molte donne e alcuni uomini: perché se dico fratelli può darsi che io intenda anche sorelle, ma può darsi anche di no. La preoccupazione, fondata sul carattere al contempo rivelativo e performativo del linguaggio, riguardava sia l’adeguatezza della rappresentazione (le sorelle esistono e sono tutt’altro che inattive, quindi non nominarle significa tradire la realtà), sia le possibili conseguenze negative dell’omissione: la brutta abitudine di usare il maschile come falso neutro è infatti tutt’altro che innocente, e lo spazio lasciato scoperto dall’ambiguità delle parole può essere facilmente colonizzato. Su un piano non altrettanto profondo si poneva la replica del direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede: «Trattandosi di una citazione di san Francesco […], il Papa non l’ha ovviamente modificata. Ma sarebbe assurdo pensare che il titolo, nella sua formulazione, contenga una qualsivoglia intenzione di escludere dai destinatari più della metà degli esseri umani, cioè le donne»[1].
Una volta uscito il testo, però, si è visto che subito dopo le due parole riprese dalle fonti francescane le sorelle ci sono, e ben evidenti: «“Fratelli tutti”, scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo». Quindi c’è da chiedersi come mai alle persone che hanno curato la redazione dell’enciclica non fosse venuto spontaneo fare un’operazione semplicissima e incruenta, e cioè modificare l’ordine delle parti della frase. Immaginiamo: «A tutti i fratelli e le sorelle si rivolgeva san Francesco d’Assisi per proporre una forma di vita dal sapore evangelico».
Forse non è venuto in mente perché questo esserci e al tempo stesso non esserci delle sorelle accanto ai fratelli non è limitato all’incipit dell’enciclica, ma attraversa tutto il testo.
Escluse e ferite
Ci sono certamente le donne fra le vittime delle «forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto» di cui l’enciclica elenca le numerose declinazioni; in aggiunta, ribadendo che è inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto di essere donna (n. 121) Francesco denuncia esplicitamente: «L’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la realtà gridano un altro messaggio. È un fatto che doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti» (n. 23).
In seguito, quando parla della verità dovuta alle vittime come condizione necessaria per ogni cammino di incontro e riconciliazione, il papa porta tre esempi. Nei primi due non è difficile scorgere le donne: «Verità è raccontare alle famiglie distrutte dal dolore quello che è successo ai loro parenti scomparsi» – le madri di Plaza de Mayo ci si presentano immediatamente agli occhi della mente – e «verità è confessare che cosa è successo ai minori reclutati dagli operatori di violenza». Nel terzo la menzione è esplicita e specifica: «Verità è riconoscere il dolore delle donne vittime di violenza e di abusi» (n. 227).
Innominate costruttrici di pace
Ma non c’è solo questo, non ci sono solo vittime. L’orizzonte di amicizia sociale che Francesco disegna come unico in grado di salvare l’umanità dall’autodistruzione è innervato di posture, reti, forme di relazione che spesso, nella realtà, vedono le donne come protagoniste. Sappiamo che sono in primo luogo le “sorelle”, in modi diversi a seconda dei contesti, a prendersi cura delle persone in situazione di fragilità e a praticare l’artigianato della pace, le relazioni di prossimità, le opere solidali. Così come infinite sono le pratiche di sororità in cui il desiderio di incontrarsi e capirsi nelle reciproche differenze è il più efficace antidoto alla paura e la sponda più affidabile contro il dilagare dei fondamentalismi.
Ancora, la fioritura dell’essere è il senso profondo del lavoro delle teologhe femministe in ogni parte del mondo, e sono le filosofe ad aver sviluppato un pensiero che assume in modo radicale, inclusivo e liberante la vulnerabilità di ogni essere umano (Judith Butler) e del creato. Quando poi Francesco al n. 241 afferma che è doveroso disarmare l’oppressore e togliergli il potere che usa per violare l’altrui dignità (e anche la propria), è impossibile non pensare a tutte le donne che proprio per questo hanno disobbedito e disobbediscono a chi – anche nella Chiesa – le vuole destinate alla sottomissione e alla sopportazione. Agiscono esattamente come dice Francesco: per giustizia e non per vendetta. E a noi sembra di sentire la voce che risuona nella Cassandra di Christa Wolf: «fra uccidere e morire c’è una terza via: vivere».
Un silenzio anti-retorico
Tutte queste sorelle sorreggono il mondo, eppure il papa non ne nomina nessuna che gli sia stata di ispirazione e non rimanda ad alcun loro scritto. È una mancanza che pesa.
Al tempo stesso, l’esperienza ci dice che ben di rado gli uomini di Chiesa sanno muoversi con passi opportuni nei campi della differenza sessuale e del genere; nelle loro mani, il riconoscimento del valore delle donne si trasforma immediatamente in delega etica: attribuiscono alle donne una “genialità ontologica” nelle virtù necessarie all’umanizzazione della società e le caricano della responsabilità di migliorare il mondo mentre gli uomini lo governano.
In Fratelli tutti questo ci è fortunatamente risparmiato. Non ci sono distinzioni nella consegna, e questo è importante per due motivi. Il primo è che, tolta di mezzo la retorica angelicante, possiamo indagare in modo non moralistico un fenomeno ben noto: tra coloro che “fanno muro” contro i poveri vedendoli come una minaccia al proprio benessere ci sono in prima linea anche molte donne. Madri fortunate che cacciano dalle mense scolastiche i bambini di madri meno fortunate, leonesse da tastiera che pubblicano commenti immondi ogni volta che un barcone affonda nel Mediterraneo, politiche che mobilitano razzismi e sovranismi, e via dicendo.
Il secondo motivo per cui questo silenzio di Francesco è importante è che se l’umanizzazione non è delegata alle donne, gli uomini sono chiamati in causa in prima persona.
E voi, fratelli?
Qui si apre un capitolo di enorme portata, perché a ben vedere ciò verso cui l’enciclica orienta la persona umana, il tipo di soggettività a cui la sollecita è esattamente opposto alla costruzione del maschile così come la conosciamo nella nostra cultura. Un maschile che fin dal legame primario, quello con il femminile, ha mostrato di non saper gestire la relazione se non in termini di dominio, costruendo “l’altra” (Simone de Beauvoir) e distanziandosene gerarchicamente; che ha fatto dell’impassibilità la suprema virtù e considerato empatia, gentilezza e cura come infermità dell’essere, forse utili alla sopravvivenza della specie ma certo non di competenza degli esseri superiori; che ha cercato ossessivamente la postura eretta, in perfetto e autosufficiente equilibrio, dimenticando che la vita si genera e rigenera nell’inclinazione (Adriana Cavarero).
E invece, proprio due figure maschili capaci di inclinazione sono prese a modello in questa enciclica. Il samaritano della parabola evangelica (cap. II), chinato sull’uomo lasciato a terra dai briganti a curargli le ferite: la “compassione” che lo muove è letteralmente, nel verbo greco, un movimento delle viscere, che richiamano le viscere materne attribuite a Dio nel Primo Testamento; ed è un verbo usato altrove, nei vangeli, solo in riferimento a figure maschili: più volte Gesù, una volta il padre misericordioso della famosa parabola “del figlio prodigo”. E poi Francesco d’Assisi, che «si liberò da ogni desiderio di dominio sugli altri» (n. 4). Quel Francesco, aggiungiamo, che esortava i frati a trattarsi reciprocamente come farebbe una madre, cioè al di fuori di dinamiche gerarchiche e di potere sia nell’esercitare l’autorità che nel praticare la cura.
I “fratelli”, sembra sottintendere questa enciclica, hanno molto da interrogarsi sulla propria soggettività e sul modo in cui essa ha plasmato processi e strutture sociali tanto incompatibili con quella che papa Francesco chiama la dimensione universale dell’«amore fraterno».
Certo è che finché non ci si percepisce come parziali è assai difficile essere capaci di questa universalità, perché si fa coincidere il proprio io con il tutto. Occorre che un altro soggetto con la sua presenza autonoma ci dia la misura reale del nostro spazio e ci tolga dal centro.
È per questo – ritorniamo alle parole e alla loro impronta sui pensieri – che non bisogna “sottintenderle”, le sorelle. Bisogna nominarle.
[1] In realtà, originariamente la sesta Admonitio era rivolta da Francesco ai suoi frati («fratres», appunto); in seguito, precisa Niklaus Kuster, essa confluì in una raccolta di insegnamenti destinati a tutte le persone al servizio di Dio, uomini e donne. Per questo, afferma lo studioso cappuccino, «La traduzione letterale della frase latina non riflette il pieno significato che il testo intende esprimere nella sua forma finale […]. L’“omnes fratres” o “fratelli tutti” dell’enciclica va tradotto […] in modo tale che tutti i cristiani, uomini e donne, si sentano coinvolti».
Che la formula “fratelli tutti”, invariata anche nelle versioni in altre lingue, non sia adeguata a questo scopo lo mostrano proprio le traduzioni: in lingua inglese, ad esempio, si trovano molti articoli anche di agenzie cattoliche che riproducono la forma maschile dell’italiano titolando All brothers. Da segnalare, all’opposto, l’ottima soluzione adottata da alcune realtà anch’esse cattoliche: «Pope Francis gives us a new encyclical letter (03-10-2020) entitled: Fratelli tutti (All Brothers and Sisters)».
Rita Torti, saggista, Coordinamento teologhe italiane.
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