Custodi del proprio fratello/sorella

di Umberto Cocconi[1]

 

Papa Francesco racconta la parabola del buon samaritano: «C’era un uomo ferito, a terra lungo la strada, che era stato assalito. Passarono diverse persone accanto a lui ma se ne andarono, non si fermarono. Erano persone con funzioni importanti nella società, che non avevano nel cuore l’amore per il bene comune. Non sono state capaci di perdere alcuni minuti per assistere il ferito o almeno per cercare aiuto. Uno si è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato di lui. Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso lesiniamo tanto: gli ha dato il proprio tempo. Sicuramente egli aveva i suoi programmi per usare quella giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è stato capace di mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo tempo» (FT, 63). «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9). La risposta è la stessa che spesso diamo noi: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (ibid.). «Con la sua domanda, Dio mette in discussione ogni tipo di determinismo o fatalismo che pretenda di giustificare l’indifferenza come unica risposta possibile. Ci abilita, al contrario, a creare una cultura diversa, che ci orienti a superare le inimicizie e a prenderci cura gli uni degli altri» (ibid, 57). Come diventare custodi dei nostri fratelli? È la domanda che ci scava dentro, se vogliamo essere pienamente umani, e quindi divini.

La pagina di Vangelo che racconta la storia del samaritano è – per noi – la chiave per interpretare l’enciclica. Il samaritano rappresenta chi consideriamo disprezzato, sbagliato, eretico, straniero: proprio lui si fa prossimo, si avvicina. Il prossimo non è chi mi è vicino spazialmente, ma a chi mi avvicino. Il samaritano “non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicini a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi”. “Chi è il mio prossimo?” è la domanda che nella parabola del samaritano il dottore della legge rivolge a Gesù, che a sua volta capovolge l’interrogativo in: “Chi si è fatto prossimo?”.

 

Papa Francesco afferma che la domanda sul prossimo è la domanda che fa «risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale. … Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro» (ibid, 66). Il prossimo è colui che io decido di incontrare, infatti se una persona si mette nella logica di cercare di capire chi sia il prossimo, sbaglia, perché finirà per prestabilire chi vuole incontrare, finirà cioè per decidere lui il bisogno del prossimo, mentre la necessitas è quella di farsi prossimo di chiunque si incontri, di ogni uomo o donna che ci passa accanto. Non dobbiamo avvicinarci all’altro perché è nel bisogno, ma l’altro deve essere reso prossimo in quanto fratello o sorella in umanità. Nell’incontro poi conosceremo il suo eventuale bisogno: solo così si può fare un cammino che umanizza entrambe le parti.

 

L’espressione ‘buon samaritano’ è entrata addirittura nel linguaggio comune: dire che qualcuno si comporta da ‘buon samaritano’ è riconoscergli un certo modo di agire, attribuirgli un compito ben preciso all’interno del contesto in cui opera. Il personaggio descritto dalla parabola di Gesù crea un paradigma di comportamento capace di interpretare la gratuità, la dedizione, l’attenzione verso chi soffre. Protagonista del racconto è un uomo, uno qualunque, senza nome né identità. È stato appena assalito dai briganti e spogliato delle sue vesti. Il vestito sottratto è un forte segno di riconoscimento sociale, sicché spogliare una persona non significa solo umiliarla, ma anche privarla di qualsiasi segno di appartenenza, cioè dell’identità. Se il sacerdote e il levita si fossero fermati e si fossero fatti vicini a quell’uomo incappato nei briganti, se lo avessero guardato negli occhi, ‘volto contro volto’, anche loro avrebbero sentito com-passione, sarebbero stati presi da una stretta alle viscere e gli avrebbero usato misericordia. Gesù caratterizza la dedizione del samaritano verso quello sconosciuto con un verbo davvero singolare: egli è preso da compassione (il verbo greco utilizza una radice che richiama le viscere, cioè i sentimenti più profondi).

 

Il samaritano è l’esempio di una carità straordinaria! Ma, ci si chiede: è possibile comportarsi allo stesso modo? «L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci troviamo davanti alla scelta: essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza. E se estendiamo lo sguardo alla totalità della nostra storia e al mondo nel suo insieme, tutti siamo o siamo stati come questi personaggi: tutti abbiamo qualcosa dell’uomo ferito, qualcosa dei briganti, qualcosa di quelli che passano a distanza e qualcosa del buon samaritano» (ibid, 69).

Il Papa nell’enciclica cerca di coinvolgere in prima persona l’ascoltatore nell’esperienza traumatica di quest’uomo senza volto e senza nome. Ci spinge a prendere le mosse dalla situazione concreta, a entrare nelle pieghe complesse dell’esistenza, ad assumere un atteggiamento empatico. Tu con chi ti identifichi? «Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti, ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate» (ibid, 64). Entrare nella pelle dell’altro chiede una maggiore disponibilità, domanda di tenere i piedi per terra, obbliga a guardare la realtà nella sua cruda complessità, ma solo percorrendo questa strada si conoscono le reali necessità delle persone e si compie un cammino di umanizzazione. Papa Francesco ci ricorda: «Ci chineremo per toccare e curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri? Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura» (ibid, 70)

 

L’apprendistato della carità passa attraverso un’immersione nella storia ferita degli uomini e delle donne, senza la cui condivisione non si dà autentica prossimità. Noi oggi, come società, ‘facciamo la carità’ più che in altre epoche, ne possiamo essere certi, ma siamo sicuri di vivere la Carità evangelica che non è solo donare e condividere i beni, ma è innanzitutto prossimità per incontrare, per poter ascoltare, per poter innescare una relazione nella quale poi operare con responsabilità e amore, secondo i bisogni di chi incontriamo? Questo diventare prossimi non ci spinge ad allargare i nostri confini? A protenderci verso il mondo? «La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune. Nello stesso tempo, la parabola ci mette in guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano solo a sé stesse e non si fanno carico delle esigenze ineludibili della realtà umana» (ibid, 67). Lo scrittore Luigi Santucci, nel suo racconto Samaritano Apocrifoha ricordato la presenza del personaggio evangelico sui “vestiboli dei lazzaretti e dei luoghi pii”, il musicista Benjamin Britten ne ha riproposto la figura nell’intensa Cantata misericordium op. 69, composta nel 1963 per il centenario della Croce Rossa. Nell’apocrifo Vangelo di Tommaso, Gesù ripete: «Ama il tuo fratello come l’anima tua. Proteggilo come la pupilla dei tuoi occhi».

 

Ci sono tanti modi di passare a distanza, complementari tra loro. Ad esempio «Uno è ripiegarsi su di sé, disinteressarsi degli altri, essere indifferenti. Un altro sarebbe guardare solamente al di fuori. Nella società globalizzata, esiste una maniera elegante di guardare dall’altra parte che si pratica abitualmente: sotto il rivestimento del politicamente corretto o delle mode ideologiche, si guarda alla persona che soffre senza toccarla, la si mostra in televisione in diretta, si adotta anche un discorso all’apparenza tollerante e pieno di eufemismi» (ibid, 76). Il sacerdote e il levita incarnano la rigida sacralità che separa dal prossimo; in quelli che passano a distanza c’è un particolare che non possiamo ignorare: erano persone religiose. Di più, si dedicavano a dare culto a Dio: un sacerdote e un levita. Questo è degno di speciale nota: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace.

Il samaritano rappresenta la misericordia e la vera religiosità che si unisce al dolore per redimerlo. È per questo che una tradizione successiva ha visto nel ritratto del samaritano un’immagine di Cristo stesso. Sulle mura di un edificio crociato diroccato, sito ora in quella stessa strada e chiamato liberamente il Khan(caravanserraglio) del Buon Samaritano, un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: «Se persino sacerdoti o leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il Buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna».

 

Ciò che ci invita a compiere questa enciclica è leggere, nell’universo di significati a cui guardiamo dalla nostra finestra sul mondo, alcuni criteri interpretativi e attraverso di essi fare delle scelte in termini di ‘amore politico ‘, un atteggiamento di prossimità verso tutti gli esseri umani. C’è un richiamo all’agire politicamente: il bene comune è il riferimento, ma il bene comune lo si produce agendo, non solo pensando.

 

[1] Presbitero presso la parrocchia di San Tommaso in Parma, incaricato della Pastorale Universitaria della Diocesi di Parma.

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