Prima la comunità: quale?
Pietro Pellegrini[1]
La pandemia ha evidenziato come sia necessario un sistema di welfare pubblico universale, solidale, sostenuto da un patto sociale condiviso e praticato. Il riferimento ai valori costituzionali – che affonda le radici nelle culture cattolica e social-comunista, nell’antifascismo, nella resistenza ad ogni forma di dittatura e nel rifiuto del razzismo – appare evidente e naturale per chi ha una certa età ed ha vissuto la stagione dell’emancipazione e dei diritti, ma non è affatto tale per chi ha subito nella propria esperienza di vita, sulla propria pelle, il peso del neo liberismo prima temperato e poi sempre più vincente. Il richiamo alla Costituzione rischia di essere un insieme di parole retoriche, specie quando le persone sperimentano l’assenza del welfare e la delusione diviene disillusione e rabbia, ma non espressa nelle abituali forme di protesta.
Il neoliberismo ha indicato e reso il welfare un bene di lusso “che non ci potevamo più permettere”, ha detto che la società non esiste ma vi sono solo individui. Questo avrebbe dovuto vederci oppositori, convinti sostenitori della solidarietà anche fiscale (visto che chi paga il welfare sono i lavoratori) ma in fondo siamo stati sconfitti. Talora si è ampiamente colluso, nell’idea che il liberismo potesse essere “temperato”.
Il neoliberismo non ammette il suo fallimento nemmeno di fronte al virus, allo stato del pianeta, alle emergenze umanitarie di vari popoli, alle guerre e alle carestie e al costante depredamento di risorse. Non ha nulla da dire se massicci finanziamenti pubblici finiscono a privati (le cui attività non sono affatto strategiche e nemmeno essenziali) quando era inaccettabile che andassero a scuola e welfare. La forza del capitale è cresciuta e le diseguaglianze aumentate anche grazie ad un dominio culturale rispetto al quale non c’è controcanto.
Se il progetto di trasformare il welfare italiano in un medicare per i poveri ha comunque lasciato in piedi un sistema ancora valido di servizi, come investire se non partendo dalla persona nella comunità? La questione delle comunità nello scenario tra globale e locale risente del processo di privatizzazione anche della sofferenza, che ha comportato il nascere dalle individualità (ognuno deve “arrangiarsi”), di frazioni di comunità diversamente connotate da fattori culturali ed etnici: gli stranieri, le corporazioni, i tutelati, le partite iva, le donne, i generi, i NEET, gli anziani, ma anche i no vax, i razzismi, i suprematisti. Monadi e piccoli gruppi, in una realtà allargata, dove il virtuale è assolutamente presente e cambia ogni attività compresi i modi di comunicare e interagire e dove la comunità al singolare, unitaria e integrata non esiste.
Questo processo di frammentazione non può essere facilmente ricomposto se non viene conosciuto e incontrato nelle reali condizioni di vita delle persone, delle tante tipologie di famiglie e delle situazioni sociali. Dunque, di quale comunità stiamo parlando?
Isolamento, solitudine, disperazione, povertà (di diversi tipi), anomia sono in incremento in ogni ambito. Le classi meno abbienti sono deluse da una società che a loro non riserva quasi nulla, se non precariato e lavori instabili, si sentono tradite da un welfare che non assicura nessun diritto a chi non ha titolo diverso da quello di semplice cittadino (le protezioni categoriali e selettive aprono un’altra questione); inoltre, se uno non ha nemmeno questo, rischia di non esistere e quindi diviene invisibile e clandestino. Dunque, anche chi sta meglio può essere privato di un senso sociale. Anomia e indifferenza che sono alla ricerca di una speranza, per non finire in un cono d’ombra che rischia di diventare un buco nero nel quale verrà inghiottita un’intera generazione e con lei il sistema di welfare.
A chi dovrebbe rivolgersi chi non ha lavoro, reddito, casa e fino ad ora resiste perché persiste un welfare familiare, residuato dagli anni ’70 del secolo scorso ma destinato a scomparire entro 20-30 anni circa. Poi in futuro saranno sempre meno i lavori stabili, le pensioni, le case di proprietà…. Le persone danno la sensazione angosciosa di essere sole e senza riferimenti.
Anche in Emilia Romagna, i dati su famiglie con minori in condizioni di povertà, sul livello di abbandono scolastico, sugli sfratti esecutivi, sui senza tetto, sulla violenza di genere, tanto per citare alcuni temi, sono già molto seri. Non bastano certo le pur meritevoli iniziative dei servizi pubblici e quelle solidali, se non si riprende il tema del patto sociale incentrato su diritti e doveri, ridefiniti nella loro consistenza, esigibilità e fruibilità come base per costruire il futuro, in grado di creare emancipazione ed evoluzione. Altrimenti aumenterà il divario tra ideale e reale e vi sarà una crescente sub-società, spesso invisibile, dell’esclusione, dell’indifferenza e dell’abbandono. Continueranno ad emergere contraddizioni e scelte drammatiche fra salute/lavoro, lavoro/tutela ambientale, lavoro/giustizia e parità di genere.
Avere confuso i diritti con le opportunità, ed oggi con i bonus e i ristori, è il segno della profondissima crisi sociale nella quale siamo immersi, specie se si pensa che anche i doveri sono diventati opzionali, secondari, derogabili, riducibili in base alla mera convenienza, individuale o di gruppo, anche quando dovuti in base alla legge. Doveri verso l’altro che non scattano nemmeno quando questi è in pericolo di vita, nemmeno quando è nella sofferenza. Il problema non è solo per l’altro, ma per ciascuno di noi, per la nostra umanità e socialità. Si crea così, l’uomo psicopatico e sociopatico privo di empatia e senso di responsabilità, di rispetto per l’altro e quindi per la democrazia. Un percorso che mina la verità in ogni sua forma, la parola perde senso mentre avanza l’azione.
Questa decadenza, solo attenuata dal persistere sia di un’etica privata in ambito pubblico, sia di un sistema di servizi non è ancora arrivata alla catastrofe ma si è già abbattuta sulle prospettive di vita delle persone, a partire da quelle delle giovani generazioni, private di futuro. Si attende l’uscita dal Covid come ripresa, euforia di un progresso, quando invece servirebbero la giusta misura, la frugalità e la cultura.
È necessario trovare il minimo comune denominatore, per definire quanto unisce tutti in una visione universale, che sappia affrontare apertamente il conflitto superando – in nome della verità e dell’aderenza ai fatti – le trappole del “buonismo” e del “politicamente corretto”. Occorre una prospettiva rivoluzionaria, in grado di rimettere in gioco le forme della produzione, gli interessi, la composizione e lo stato delle comunità e i valori delle persone. Lo stato di sofferenza e alienazione, di depressione e disperazione che rischia di minare anche migliori risorse e per questo essere e divenire speranza, sogno e utopia, come elementi costitutivi di relazioni.
Solo con questo bagno di umiltà e realtà la comunità può essere un sogno, ma è non quella degli anni ’60, indietro non si torna. Un sogno che può voler dire immaginare di creare microcomunità, ambiti dove le persone possano trovare sicurezza, solidarietà e possibili evoluzioni della propria persona, magari con strumenti nuovi come i “budget di salute” nell’ambito di una rete nuova di servizi di comunità. L’esempio positivo di Riace di Mimmo Lucano è un modello attaccato e abbandonato. Su questo sbandamento, sul fare propri – in numerose componenti della popolazione – di convinzioni razziste più o meno attenuate, si manifesta la sconfitta culturale del welfare pubblico che trascina con sé anche i servizi: con i migranti soccombono anche i servizi di accoglienza e integrazione, magari per incrementare poi a dismisura la risposta securitaria e penitenziaria.
Il progressivo trasferimento di compiti e interventi al sociosanitario (compiuto a risorse invariate o calanti), con la delega abbandonica che l’accompagna, è frutto di una crisi politica e di una convivenza sociale abitata da interessi privati conflittuali e non più da un insieme di contesti in grado di accogliere, organizzare presenze, far vivere valori per una piena realizzazione della persona.
Per le generazioni del dopoguerra lo studio è stato elemento di riscatto, di emancipazione da una povertà economica che era connotata da umiltà, dignità, parsimonia, solidarietà e impegno caparbio. Ha funzionato perché vi era una prospettiva di lavoro anche nel sistema pubblico. Vi era la volontà di unire la crescita personale con quella dei servizi perché tutti ne potessero essere parte. Il welfare pubblico universale è stata la più grande opera del Paese. Parrocchie, cooperative, circoli, associazioni, squadre sportive, scuole sono state fondamentali per questo, incrociando un sistema produttivo che ha saputo accogliere e migliorarsi e un insieme di servizi che vedevano l’orgoglio del fare, dell’appartenere.
Chi è responsabile dello stato dei servizi, della ricerca, di un sistema pubblico che rispetto alla media Europea ha circa 1milione e duecento mila operatori in meno?
Le crisi istituzionali e della partecipazione hanno creato crepe ancora presenti che hanno rotto l’unitarietà della comunità. Le frammentazioni hanno riguardato anche i servizi sanitari (compresi quelli psichiatrici), dove le pratiche reali, spesso sostenute da una cultura democratica, hanno ridotto l’ambito delle competenze agli aspetti più tecnici, biologici e psicologici, lasciando in secondo piano quelli sociali, considerati competenza di altri. I servizi sociali hanno visto ristretto l’ambito degli interventi, dei diritti, in ragione di una logica valutativa volta a selezionare a chi riservare le prestazioni.
Nella pandemia si è visto come la presenza di servizi sanitari e sociali sul territorio, pur con tutti i limiti, è stata un elemento di riferimento e di sostegno; nelle difficoltà inattese molti utenti e famiglie si sono attivate mostrando capacità di automutuoaiuto, la casa della persona è diventata la vera casa della salute. Sul sistema territoriale, sulle previste Case della Comunità occorre investire, ma partendo dalle persone e non dai luoghi, dai collegamenti e non dalle insegne, dalla concretezza dei bisogni dei territori e non da nuovi dirigismi. La distanza fra bisogni e le risposte è sempre ampia e diviene ancora maggiore se viene persa la funzione sociale delle attività produttive, dei servizi, della cultura, dei trasporti, della programmazione del territorio.
Questi restano improntati da una cultura neo liberista e del profitto privato (si pensi alle partecipate alle quali il sociale eroga sussidi perché non taglino il gas agli utenti poveri). Il distacco fra sociale e sanitario ha mostrato tutti i limiti con la pandemia e su questo le riflessioni sono molteplici: su come le programmazioni e le gestioni non siano unitarie e le Case della salute e i Punti di comunità crescono in via indipendente, per poi invocarsi l’un l’altro.
Allora credo occorra conoscere, fare analisi approfondite, ascoltare, ricercare per creare ipotesi e soluzioni. Abbiamo già molti dati che allarmano, ma dobbiamo capire di più ogni territorio e le condizioni delle persone. Questo anche per affrontare il tema dell’ambiente, della progressiva urbanizzazione e insieme l’abbandono di altre aree, delle comunità divenute disabitate. Un processo che non può essere fermato senza una politica di sistema, senza chiedersi quante risorse destinare/investire/attivare nel welfare per superare modelli assistenziali obsoleti, onerosi e non di comunità.
In definitiva, esistono più comunità che vanno conosciute, mentre la coesistenza e la ricerca di un comune denominatore è essenziale per un nuovo patto sociale che renda esigibili i diritti, inderogabili i doveri e che si confronti con le difficoltà reali di ogni ambito. In questo quadro di riferimento politico e ideale, diventa importante la creazione di Case di comunità, intese come microcomunità che uniscono tramite le connessioni e la partecipazione le persone tutte con una loro Casa della salute, rendendole protagoniste della loro vita individuale e sociale insieme, per un futuro comune.
[1] Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma
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