Le monde est à nous: l’uguaglianza secondo Papa Francesco

di Samuele Trasforini

Studente di Filosofia presso l’Università degli Studi di Parma e laureato in Studi Filosofici con tesi in Filosofia del Linguaggio.

L’essere sulla stessa barca come principio di uguaglianza

Nell’enciclica Fratelli Tutti, Papa Francesco affronta – fra gli altri – il tema dell’uguaglianza fra gli uomini come conseguenza di una reale presa di coscienza, in quanto risultato di una fraternità consapevolmente coltivata. Nel fare ciò, pone in evidenza le contraddizioni del nostro stare nel mondo, muovendo aspre critiche a un sistema socioeconomico – di cui siamo al contempo attori e spettatori – che promuove ingiustizia e disuguaglianze in ogni parte del mondo.

Papa Francesco, proponendo l’immagine della barca su cui ogni essere umano incondizionatamente viaggia, porta alla luce la dimensione globale e universale dell’uomo, su cui il tema dell’uguaglianza si fonda: «Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme» (FT, 32).

Già nel 1985 Hans Jonas parlava degli uomini come tutti su di un’unica barca: «Nel mondo di domani la disponibilità ad aiutare non si dovrà esercitare da uomo a uomo e dallo stato nei confronti dei suoi cittadini, ma anche da nazione a nazione, dove anziché la nobiltà d’animo […] sarà il comprensibile interesse di tutti i passeggeri di una stessa barca a divenire ragione sufficiente e, speriamo, anche motivazione efficace»[1]. Affrontando il tema di ciò che una società può o non può permettersi, Jonas sosteneva fra l’altro che essa non può permettersi il dilagare incontrollato di un’epidemia.

L’attuale crisi pandemica, nella quale ci troviamo a dover scegliere tra la vita di centinaia di migliaia di persone, per l’intero pianeta, e l’andamento dei mercati, è il segno di quanto le nostre società siano trascinate in una crisi senza precedenti, perlomeno dal dopoguerra a oggi. Non bisogna certo dimenticare che gli effetti distruttivi del capitalismo globale emergevano prima (sfruttamento, terrorismo, guerre, immigrazione, ecc.) e continueranno a emergere in futuro (cambiamenti climatici). Tuttavia, è innegabile che la condizione in cui tutti ora ci troviamo rappresenta qualcosa di straordinariamente unico nella storia delle società post-moderne.

Slavoj Žižek nel 2020, in relazione alla pandemia imperversante, ha sottolineato l’ambiguità dell’immagine della “stessa barca”: «La prima cosa a balzare agli occhi è che, in contrasto con il luogo comune “siamo tutti sulla stessa barca”, sono esplose le divisioni di classe»[2].

Quanto scrive Papa Francesco non contrasta tuttavia con ciò che sostiene Žižek giacché Papa Francesco appare ben consapevole che, se da una parte «siamo tutti sulla stessa barca» significa che l’umanità ha un destino comune, dall’altra ciò non significa affatto che tutti gli uomini sono uguali: «Neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che “tutti gli esseri umani sono uguali”» (FT, 104). Se tutti gli uomini sono uguali in linea di principio, la realtà sociale mostra che tale condizione è molto lontana dall’essere attuale, concreta. La barca su cui viaggiano tutti gli uomini è la stessa, tuttavia è divisa in scompartimenti e l’acqua non potrà che riempire prima i piani inferiori; ciò significa che tutti gli uomini sono uguali (idealmente) ma alcuni annegheranno prima.

Chi dovrebbe guidare questa barca?

Papa Francesco, attuando una commistione tra onirico e reale, riconosce i risultati finora ottenuti dall’umanità (a partire dall’Europa) – affermando che «Per decenni è sembrato che il mondo […] si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione. Per esempio, si è sviluppato il sogno di un’Europa unita, capace di riconoscere radici comuni e di gioire per la diversità che la abita» (FT, 10) – senza al contempo dimenticare la dimensione concreta del presente: «La storia sta dando segni di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. In vari Paesi un’idea dell’unità del popolo e della nazione […] crea nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali» (FT, 11).

Se la barca su cui tutti viaggiamo è la stessa, il capitano a cui dovremmo affidare il timone sembrerebbe essere il gruppo costituito dai paesi più sviluppati, per l’influenza economica e politica e per il ruolo culturale che tali stati ricoprono: in questo senso sono richieste alle grandi potenze azioni di «dotazione» nei confronti di chi più ne ha bisogno, ovvero quel genere di azioni che – come scrive Laura Gherardi – «accrescono, per il destinatario, almeno una capacità materiale o simbolico-identitaria, la sua acquisizione e/o il suo riconoscimento»[3]. Colui che compie un’azione di dotazione dà più di quanto gli viene richiesto dalla situazione stessa, aumentando il potere negoziale e la forza sociale di un individuo o gruppo (un esempio cui si riferisce Laura Gherardi è quello di Adriano Olivetti che per migliorare la condizione dei suoi dipendenti, dal 1933 al 1960, investì ingenti somme di denaro in infrastrutture, servizi sociali e culturali a essi rivolti).

L’onere di questa impresa sembrerebbe spettare ai paesi più sviluppati, essi pure tuttavia attraversati da radicali contraddizioni interne, alle quali Papa Francesco pone molta attenzione, muovendo una critica esplicita alle società neoliberiste in termini di reale universalità dei diritti: egli scrive, riprendendo precedenti documenti ecclesiali: «Molte volte si constata che, di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti. Il rispetto di tali diritti “è condizione preliminare per lo stesso sviluppo sociale ed economico di un Paese. Quando la dignità dell’uomo viene rispettata e i suoi diritti vengono riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza e la personalità umana può dispiegare le sue molteplici iniziative a favore del bene comune”. Ma “osservando con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano numerose contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati”» (FT, 22) [4].

Come dice Papa Francesco, prendersi cura del mondo significa prendersi cura di noi stessi, ed è ora necessario costituire un “noi”, un “noi” universale che si coglie sulla stessa barca e che ancora purtroppo non esiste. Così, se si considera che la cura di cui parla Papa Francesco è al momento solo ideale e non attuale e se si prende atto della non universalità dei diritti nel mondo povero come nei paesi più sviluppati, è spontaneo chiedersi – relativamente a quei paesi che per primi hanno ottenuto grandi risultati in termini di diritti umani – se possono essi navigare e portare (con azioni di «dotazione») questa barca lontano dall’iceberg (immigrazione, crisi economiche, pandemie, cambiamenti climatici ecc.) contro cui sta andando a collidere. Riprendendo una nota battuta di Žižek, quando vediamo la luce in fondo al tunnel è molto probabilmente il faro del treno che sta per travolgerci giungendo dalla direzione opposta.

Il primato della dignità umana e la decadenza della società neoliberista

Non sono solo i paesi poveri a subire le devastanti conseguenze del capitalismo globale, anche le democrazie più avanzate stanno mostrando gravissimi limiti. È indubbio il fatto che nei paesi più sviluppati la qualità della vita sia più elevata rispetto al resto del mondo, tuttavia è altresì evidente che l’ingiustizia vige anche laddove sembrerebbe non essere così e la distribuzione della ricchezza ne è un chiaro indicatore. Papa Francesco sottolinea tali ingiustizie e muove una forte critica all’ideologia neoliberista, anteponendo il primato della dignità umana all’autoriproduzione del capitale: «Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” o del “gocciolamento” – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale. […] La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, “dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno”» (FT, 168).

La decadenza, o meglio la caduta della società neoliberista sul fondo delle sue contraddizioni – denunciate da Papa Francesco – è descritta perfettamente dal film francese L’odio del 1995 di Mathieu Kassovitz, la cui citazione più famosa è «fino a qui tutto bene» in riferimento alla storia di un uomo che cadendo da un palazzo non fa che ripeterselo, consapevole del fatto che la caduta non è il problema ma che lo è invece «l’atterraggio». Ma la scena più emblematica e rivelatrice è quella in cui Saïd, uno dei tre giovani protagonisti, camminando per strada insieme ai suoi due amici – “scarti” della banlieue parigina – nota un cartellone pubblicitario con sopra scritto «le monde est à vous»; vi si avvicina e cancellando con una bomboletta di vernice la ‘v’ aggiunge una ‘n’, rendendo leggibile «le monde est à nous». «Le monde est à vous» implica che l’essere il mondo nostro – di tutti – è garantito da un Grande Altro, e perciò ne segue che nostro di tutti – non è: «l’inequità e la mancanza di sviluppo umano integrale non permettono che si generi pace» (FT, 235). La lotta alle ingiustizie prodotte dal neoliberismo può originarsi solo da una comprensione del fatto che «“senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione”»[5] (FT, 235); è necessario prendere coscienza della nostra attuale condizione su di una barca che già sta affondando, nella quale però alcuni – tantissimi – affondano prima di altri. E non dobbiamo ripeterci «fino a qui tutto bene» ma «le monde est à nous» e agire di conseguenza – come suggerisce Papa Francesco – prendendoci cura gli uni degli altri.

  1. H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, Torino 1997, p. 44.
  2. S. Žižek, Virus, Ponte alle Grazie, Milano 2020, p. 123.
  3. L. Gherardi, La dotazione. L’azione sociale oltre la giustizia, Mimesis, Milano 2018, p. 37.
  4. Le citazioni interne al brano si riferiscono a Discorso alle Autorità, Tirana – Albania (21 settembre 2014), in AAS n. 106, 2014, p. 773, e Messaggio ai partecipanti alla Conferenza internazionale “I diritti umani nel mondo contemporaneo: conquiste, omissioni, negazioni” (10 dicembre 2018), in L’Osservatore Romano, 10-11 dicembre 2018, p. 8.
  5.  Il riferimento interno al brano si riferisce a Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 59, in AAS, n. 105, 2013, p. 1044.

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