Viaggi di esplorazione nell’Antichità. Seconda parte
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Di Sergio Michele Tardio
Una Traversata del deserto (prima metà del V secolo a.C.)
Fonti: Erodoto “Le istorie”
Le spedizioni geografiche sono originate da necessità commerciali o militari, volontà di arricchire, desiderio di conoscenza oppure per spirito di avventura che talvolta può divenire scommessa con sé stessi e con altri per mostrare cosa siamo capaci di fare. E’ questo lo spirito con cui iniziò l’incredibile impresa di cinque giovani Nasomoni che si sono addentrati nel deserto sahariano dalla costa libica per semplice scommessa con gli amici. I Nasomoni, berberi stanziati all’interno della costa settentrionale africana, vivevano nei pressi del golfo della grande Sirte e la loro sfera di influenza si estendeva per un ampio tratto dell’interno fino alle oasi di Augila e di Siwa ove vi era il grande tempio di Giove Ammone, raggiunto due secoli dopo da Alessandro il Grande. Questi giovani incoscienti e scapestrati, figli di personaggi altolocati, fra tante stravaganze avrebbero deciso di attraversare il deserto: “questi 5 giovani percorsero, ben forniti di acqua e viveri, per molti giorni il deserto sabbioso fino ad incontrare vegetazione arborea e mentre raccoglievano frutti furono assaliti da uomini di piccola statura, di pelle nera che li condussero sulle rive di un gran fiume nel quale si vedevano coccodrilli”. Questo è quanto riporta Erodoto e ci fa supporre che i cinque riuscirono a tornare indietro e raccontare la loro storia. Probabilmente partirono da una delle oasi in direzione sud-ovest ben equipaggiati poiché conoscevano il deserto. Ma dove sono andati a finire i cinque, portati dai loro aggressori? Forse nella regione del lago Ciad allora più esteso di adesso, ma più verosimilmente raggiunsero l’ansa del Niger, fiume tutt’ora infestato dai coccodrilli. Hennig e Migliorini contestano la possibilità di una traversata del deserto a piedi, dal momento che Erodoto non parla di bestie da soma, ma lo storico ammette anche che erano adeguatamente equipaggiati e potrebbe aver taciuto su eventuali cavalcature considerandole ovvie. Infatti vi sono tracce archeologiche di piste per carri dalla Cirenaica al Niger che servivano per il commercio con le regioni subsahariane di oro, avorio, penne e uova di struzzo e che potrebbe esser stata la via seguita dai giovani Nasomoni.
Due navigatori cartaginesi (inizio V secolo a.C.)
Fonti: codice 398 di Heidelberg; Rufo Festo Avieno “Ora maritima”
Alla fine del VI secolo a.C. il Mediterraneo occidentale era un lago punico ed i Cartaginesi controllavano saldamente lo stretto di Gibilterra mediante la colonia di Cadice, ma in oriente avevano subito una pesante sconfitta militare a Imera in Sicilia da parte dei Greci. Cartagine, per spirito di rivincita, si sforzò di trovare nuove risorse per arruolare mercenari e costruire navi e se fino a quel momento lo stagno ed il rame della Cornovaglia e l’oro del Senegal arrivavano tramite intermediari, i governanti cartaginesi vollero verificare la possibilità di approvigionarsi direttamente di questi minerali. Fu così che due flotte al comando di due fratelli Annone ed Ilmicone si diressero verso sud lungo le coste dell’Africa occidentale e verso nord seguendo le nebbiose coste della Gallia e delle isole britanniche.
Di Annone abbiamo il testo completo del rapporto ufficiale o almeno la sua versione greca di epoca tarda che, contenendo alcune oscurità e incongruenze, lo hanno fatto ritenere un falso. Però vi sono alcune indicazioni sui paesaggi africani tropicali, troppo esatte per pensare ad un falsario, a meno che non fosse un ottimo conoscitore dell’Africa equatoriale in una epoca in cui era ignota a tutti. Le oscurità del testo andrebbero intese come errori voluti a difesa delle rotte commerciali per conservarne l’esclusiva, tanto che Strabone segnala la storia di un mercantile cartaginese seguito da una nave romana oltre le colonne d’Ercole sulla rotta dello stagno britannico, che andò volontariamente ad insabbiarsi in una secca, seguito dalla nave romana che colò a picco. Altre inconguenze potrebbero esser state aggiunte da qualche copista su un testo a lui già oscuro e quasi incomprensibile. Comunque nel rapporto è descritto minuziosamente un grande vulcano attivo: “fiancheggiammo una costa infuocata, con grandi rivoli di fuoco che scendevano nel mare e nel mezzo una fiamma più alta che sembrava raggiungere le stelle; di giorno si vide che era una altissima montagna chiamata il carro degli Dei” che non può che essere identificato con il monte Camerun unico vulcano dell’Africa occidentale visibile dal mare, e sono citati con certezza due fiumi: “… muovemmo a sud per due giorni, passando per un grande fiume chiamato Chretes, raggiungemmo un lago, dominato da montagne piene di selvaggi vestiti di pelli d’animali… di la giungemmo ad un altro fiume largo pieno di coccodrilli e di ippopotami” che potrebbero essere identificati con il Senegal ed il Gambia, piuttosto che con il Niger e l’estuario dello Ougouè. Il ritorno sarà stato problematico perché avranno affrontato i venti e le correnti contrarie di Guinea, che con le vele quadre di allora non sarebbero riusciti a vincere; per loro fortuna avevano navi da guerra mosse dalla forza dei remi. Duemila anni dopo le caravelle portoghesi di ritorno dall’Africa equatoriale avrebbero fatto rotta verso le Azzorre per aggirare i venti e le correnti contrarie.
Purtroppo il rapporto dell’ammiraglio Ilmicone che indubbiamente esisteva accanto a quello del fratello è andato perduto ed abbiamo solo pochi cenni di questo viaggio nel poemetto di uno scrittore della tarda latinità Rufo Festo Avieno del IV sec. d.C. che parla, oltre a nebbie e foschie, del promontorio di Estrimnide, identificabile con la Bretagna, dell’Isola Sacra (l’Irlanda?) e dell’isola degli Albioni che è la Gran Bretagna. Si accenna anche a mostri marini (i cetacei che frequentavano il golfo di Biscaglia?), di imbarcazioni costruite con pelli di animali che gli Irlandesi continuarono ad utilizzare fino al medio Evo, di lunghe bonacce: “occorrono 4 mesi perché nessun alito di vento sospinge la nave in un mare accidioso ed immobile”, e di “mucchi di alghe che trattengono il battello come una siepe”, facendoci supporre che il mar dei sargassi si trovasse ben più vicino alle coste europee. Forse ci è rimasta una testimonianza diretta del viaggio: un betilo cartaginese autentico conservato a St Johnston in Irlanda; chi potrebbe averlo deposto così a nord, dove non esistevano colonie cartaginesi, se non i marinai di Ilmicone?
Questi viaggi non furono seguiti dall’instaurarsi di un commercio diretto in quanto l’Ammiragliato cartaginese ritenne non pagante tagliare fuori gli intermediari. Infatti le due flotte erano composte da maneggevoli navi da guerra che riuscirono a cavarsela anche in situazioni difficili, mentre le tonde e lente navi da carico sarebbero state poco adatte a seguire quelle rotte per le notevoli difficoltà di navigazione.
Fonte: Polibio “Le storie”
Dopo la caduta di Cartagine lo storico Polibio fu incaricato dagli Scipioni di esplorare con sette navi la costa occidentale dell’Africa. Raggiunse la foce di un fiume chiamato Bamboto (il Senegal?) pieno di coccodrilli ed ippopotami e poi una regione boscosa (forse il Capo Verde). Il motivo della spedizione rimane oscuro e Polibio non lo dice. Possiamo supporre che andasse a verificare le possibilità di resistenza ai romani delle colonie atlantiche, ma questo non spiegherebbe perché si sia spinto così a sud, oppure che era stato iniziato un inseguimento di un nucleo di sopravvissuti alla catastrofica caduta di Cartagine, disposti ad affidarsi ai propri scafi piuttosto che arrendersi ai Romani. Se questa fosse la verità, i fuggiaschi potrebbero esser incappati nell’aliseo di nord-est che li avrebbe trascinati al largo e l’Atlantico potrebbe essere stato testimone di una sconosciuta tragedia.
Il viaggio del greco Pitea (tra il 330 e 320 a.C.)
Fonti: Stabone “geografia”, Diodoro Siculo “bibliotheca historica”, Polibio “le storie”, Plinio il Vecchio “naturalis historia”.
Pitea era di Massalia (Marsiglia), colonia greca focese in occidente; scrisse un’opera, andata perduta, intitolata “intorno all’Oceano”. La maggior parte delle notizie su Pitea le abbiamo da Polibio lo storico e Strabone il geografo che però lo considerano un incredibile contafrottole contribuendo alla cattiva fama che lo accompagnò nei secoli successivi. Ebbe però anche tra gli antichi alcuni estimatori come l’astronomo Ipparco, i geografi Artemidoro ed Eratostene ed addirittura Virgilio che accenna ad una terra da lui scoperta: l’ultima Thule.
Il suo itinerario può essere ricostruito a grandi linee, ma sui particolari restano dei dubbi. Probabilmente partì da Massalia per dirigersi verso lo stretto di Gibilterra all’epoca controllato dai cartaginesi e passò, forse di notte, eludendo la sorveglianza punica (violare il blocco dello stretto è comunque possibile come dimostrato nella II guerra mondiale dai sommergibili italiani che passarono più volte in entrata ed in uscita, nonostante la vigilanza delle navi inglesi). Henning sostiene invece che Pitea raggiunse l’Atlantico via terra, attraverso la Loira, per aggirare l’ostacolo cartaginese, ma sono riportate precise osservazioni sulle maree e su caratteristiche del golfo di Biscaglia come la facilità del percorso verso nord, grazie ad un ramo della corrente del Golfo, che fanno propendere gli studiosi per la navigazione lungo le coste iberiche e galliche per quindi approdare in Cornovaglia, terra di miniere di stagno. Da qui circumnavigò la Britannia, riconoscendone per la prima volta la caratteristica insulare, anche se calcolò erroneamente le distanze che risultarono maggiori del vero (Pitea non disponeva di strumenti adatti per tali misure). Quindi fece rotta per l’ultima Thule, terra settentrionale a sei giorni di navigazione dall’Inghilterra. Tra gli studiosi si discute ancora se approdò alle isole Shetland, alle Faroer, in Islanda o in Norvegia. La descrizione della flora, della fauna farebbero pensare alla media Norvegia, intorno al profondo Nordfiord, sul parallelo 62. Infatti questa terra era abitata anche all’epoca: “mangiano frutti e bevono latte e fabbricano una bevanda con miele e cereali”, infatti era coltivata l’avena, che Pitea confonde con il miglio; mentre le isole a nord della Scozia erano verosimilmente disabitate e abbastanza vicine da non giustificare la lunga navigazione, e l’Islanda, oltre che non abitata fino al secolo IX della nostra era, presenta particolari caratteristiche fisiche: vulcani attivi e ghiaccio, e questa lotta tra il fuoco ed il gelo non poteva sfuggire ad un osservatore attento. Che cosa ha spinto Pitea ed i suoi così a settentrione? Forse giunti all’estremo limite della Britannia, dove le giornate estive erano molto più lunghe che nel Mediterraneo, sentirono parlare di terre dove la notte scompariva del tutto per alcuni mesi all’anno per ricomparire in inverno perché “il sole si era ritirato” come scrive Plinio? Pitea descrive un mare denso che ferma le navi e questo “mare indurito” è stato interpretato come la comparsa di ghiacci che incontrarono a un giorno di navigazione da Thule. Quindi Pitea si è spinto fin là, nonostante il parere di Strabone che trasformò Thule in un mitico paese da favola di un nord misterioso ed improbabile.
Ma il viaggio non era terminato. Pitea tornato in Inghilterra mise la prua ad est per dirigersi verso i luoghi ove era raccolta l’ambra, materiale molto amato in antichità. La mancanza di qualsiasi riferimento alla penisola dello Jutland ed alla miriade di isole che si incontrano nello stretto con la Scania può far dedurre che Pitea non avesse mai raggiunto il mar Baltico. L’aestuarium di cui scrive Plinio, riprendendo altre fonti, potrebbe essere identificato con la foce dell’Elba, però aestuarium è un termine geografico di significato più ampio rispetto al nostro estuario che indica sempre un fatto fluviale. Infatti gli antichi intendevano anche lunghi e profondi golfi marini e Pitea indica per l’estuario una lunghezza di 6000 stadi, cioè 1000 Km, che è la distanza tra la penisola dello Jutland ed il golfo di Riga. Per cui la spedizione dei massalioti potrebbe veramente aver raggiunto il Baltico.
I motivi del finanziamento della spedizione andrebbero cercati nel tentativo di approvvigionarsi direttamente dai produttori di stagno, attraverso la rotta atlantica, poiché fino ad allora lo stagno raggiungeva Marsiglia via terra per mezzo di intermediari, invece per l’ambra il piano doveva essere più ambizioso: deviare la linea del traffico dal terminale adriatico (dal mar Baltico la preziosa resina raggiungeva il mediterraneo ad Aquileia) al terminale massaliota. Non se ne fece nulla, però il viaggio fu impresa memorabile: studiò le coste della Britannia, le maree atlantiche supponendo che fossero causate dall’attrazione lunare, descrisse usi e costumi dei popoli incontrati. Roger Dion segnala un epigramma della Antologia Palatina riferito ad un certo Pitea: “ la morte non ha fatto presa sulla tua fama gloriosa e universale. La tua anima è presente e brilla di tutto lo splendore donatole dal tuo genio, dalla tua scienza, dalla tua intelligenza”. Quindi la damnatio memoriae della tradizione antica non riuscì ad oscurare interamente la fama meritata.
Megastene in India (302 – 290 a. C.)
Fonti: Arriano “Anabasi”, FGrHist 717, Strabone “Geografia”.
Greco originario della Ionia, Megastene giunse in India non come esploratore ma come ambasciatore di Seleuco I alla corte di Chandragupta Maurya. Fu il primo occidentale a raggiungere il Gange e ne descrisse il sistema idrografico nell’opera “notizie sull’ Indikà”. Lo scritto non ci è giunto integralmente ma possediamo numerosi frammenti in cui sono descritte le caste (è rilevata l’importanza del gruppo dei bramini), gli usi religiosi, il sistema di governo e le leggende, ma Megastene riporta credenze meravigliose senza vagliarle criticamente, come le formiche minatrici, grosse come volpi, che scavando le loro tane portano in superficie pepite d’oro, ma segnala altre cose vere, tuttavia non credute dallo scettico Strabone, come la canna da zucchero: “esiste una canna che dà miele senza api” o “alberi che crescono direttamente nel mare”, riferendosi alle foreste di mangrovia presenti nel delta del Gange. La sua opera comunque rimase per secoli la fonte più autorevole sull’India nel mondo occidentale.
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