Essere coro
di Piergiorgio Gallicani – Questo 2020 vedrà la X edizione della Festa della Repubblica organizzata in piazza per il 2 Giugno dal Coro parmigiano dei Malfattori, con i suoi ospiti ‘foresti’. Ma dopo la dislocazione decisa nell’ultima edizione, dall’usuale Piazzale Borri a Piazza Picelli nell’oltretorrente, quest’anno occorrerà di nuovo trasferirsi… su una piazza virtuale. Ci mancheranno un po’ gli abbracci; di certo, non i sorrisi, le chiacchiere – e soprattutto i canti. Anche per malvasia e lambrusco – ciascuno potrà liberamente organizzarsi in casa propria! Negli ultimi anni ho sempre risposto con gioia all’invito a partecipare alla festa, in qualità di attore; non mancherò di farlo anche quest’anno. Questa è la traccia del video intervento che intendo inviare agli amici Malfattori, traendo spunto dal tema prescelto per l’occasione:
ESSERE CORO
Stimabile Pubblico; “vogliate permettere a me, Coro, d’entrare in questa storia…”.
William Shakespeare, Enrico V
Ci sono tanti verbi, che possono reggere il sostantivo “coro” come predicato.
Si può rispondere, cantare, recitare in – coro; ci si può unire al, o dissentire dal – coro; si può fare coro. Spesso, nel linguaggio comune, accoppiata a questi verbi la parola “coro” assume un valore non positivo; richiama alla mente immagini orwelliane da Grande Fratello, scene di adunate da regime totalitario, decerebrazione collettiva e rinuncia ai criteri di giudizio critico individuale; in tal senso è spesso preceduto, nel discorso pubblico, da una negazione: non voglio unirmi al coro dei detrattori, non aderirò al coro dei plaudenti…
Essere coro, io penso, è un’altra cosa. Perché il verbo essere ha un riferimento, uno spazio d’azione più alto o più profondo – scegliete voi – di qualsiasi altro, incluso il verbo “fare” che pure non è certo disprezzabile, con tutte le sue implicazioni.
Si può scegliere di “fare coro” (o di non fare) in determinate circostanze, per rispondere a precise contingenze; esercitare questa libertà di scelta è sempre, comunque una bella opportunità. Ma “essere coro” è un’altra cosa, non contingente ma immanente, indica un atteggiamento di fondo verso i propri simili e verso la vita tutta. E’ un modo di essere umani.
“Coro” è una parola di origine greca. In effetti, per quanto pertiene alla tradizione occidentale, è un ‘qualcosa’ che ci viene da lì – insieme ad altre ‘cosucce’ quali la democrazia, la città – la Polis; e l’Agorà – la pubblica piazza delle discussioni, del confronto; e infine il teatro; al cui interno, nella fattispecie, il coro trova spazio. Nella tragedia, nella commedia, nella satira il coro è un personaggio collettivo; i suoi membri partecipano alla messa in scena quanto gli attori stessi – dialogando a volte con essi, camminando, danzando, cantando, … e colloquiando faccia a faccia con il pubblico.
Tra le tante sue funzioni sceniche e drammaturgiche, mi pare rilevante quella di esprimere la “simpateia” – l’immedesimazione empatica – del drammaturgo con le vicende dei suoi personaggi (sventure, nel caso della tragedia, o quant’altro: equivoci, buffonerie…; dovute a se stessi o alle colpe dei padri o al volere degli dei o a bizzarrie della sorte o ineluttabilità del fato…) – insomma, un richiamo al pubblico a sentirsi partecipe delle umane vicende, quali che siano. Questo è essere coro, io credo: con discernimento e partecipazione.
Mi permetto un esempio. Sofocle, Antigone; primo stasimo (primo degli intermezzi in cui il coro, dopo il “parodos” o canto d’ingresso, commenta, illustra o analizza la situazione).
Il pubblico ha già avuto modo di apprezzare la stoffa eroica di Antigone, la protagonista, e d’immedesimarsi con il suo slancio ideale, teso a invocare la superiorità delle leggi divine che ogni essere umano ha in cuore, su quelle scritte dai legislatori. Vuole che il corpo del fratello Polinice, ancorché ‘nemico pubblico’, riceva degna sepoltura dentro alle mura della città, e a questo scopo è disposta a sacrificare la vita. Poi si fa avanti l’antagonista, Creonte; lo fa da tiranno qual è, con l’arroganza e la superbia tipiche del potere. Ma la sua entrata in scena, col ‘discorso della corona’, aggiunge drammaticità e spessore al conflitto; poiché le argomentazioni che porta si richiamano alla necessità di autodifesa della comunità politica, tramite le leggi (e lascio a voi di giudicare se questo arcaico conflitto trovi eco, nella nostra attualità quotidiana). Ma ora tocca al Coro esprimersi, e lo fa con queste parole:
Molte ha la vita forze / tremende; eppure più dell’uomo nulla, / vedi, è tremendo.
Oppure, se a questa di Giuseppina Lombardo Radice (1956) preferite un’altra traduzione:
“Molte sono le meraviglie ma nulla è più portentoso dell’uomo.” – Camillo Sbarbaro (1943); o ancora, Enzio Cetrangolo (1970): “L’esistere dell’uomo è uno stupore / infinito, ma nulla è più dell’uomo / stupendo.”
O forse vi piacerà questa, di Ezio Savino: “Pullula mistero. E nulla / più misterioso d’uomo vive.”
Riprendo (operando qualche taglio) da Lombardo Radice – non fosse altro che per suggestione della parola “tremendo”:
…Va sul mare canuto / nell’umido aspro vento, / solcando turgidezze che s’affondano / in gorghi sonori. / E la suprema fra gli dèi, la Terra, / d’anno in anno affatica egli d’aratri / sovvertitori e di cavalli preme / tutta sommovendola. […]
Diede a sé la parola, / il pensiero ch’è come il vento, il vivere / civile, e i modi / d’evitare gli assalti / dei cieli aperti e l’umide tempeste / nell’inospite gelo, a tutto armato / l’uomo: che nulla inerme / attende dal futuro. Ade soltanto (la morte) / non saprà mai fuggire, / se pur medita sempre / nuovi rifugi a non domati mali.
Con ingegno che supera / sempre l’immaginabile, ad ogni arte / vigile, industre, / egli si volge al male / ora, ora al bene. Se le leggi osserva / della sua terra e la fede giurata / agli dèi di sua gente, / sé con la patria esalta; un senza-patria / è chi s’accosta, per sua folle audacia, / al male. E non mi sieda mai vicino, / al focolare, e in nulla abbia comuni / suoi pensieri coi miei / chi così vive ed opera.
Ecco: questo è per me, oggi come ieri, “essere coro”; qualcuno che si fa avanti in palcoscenico e dice, “Gentili signore, rispettabili signori, io sono il coro. Se avrete la compiacenza di ascoltarmi, vorrei condividere con voi il mio punto di vista e le mie opinioni – avendole ben ponderate – su questo e su quello…”. Potrei portarvi molti esempi shakespeariani, ma non mi dilungherò.
Tutti possiamo, se lo vogliamo, “essere coro”. Che, se poi ci pensiamo bene – e qui concludo, non temete – è esattamente quanto da casa abbiamo visto accadere tante e tante volte, su quei monitor di computer in cui cercava di darsi forma la nostra vita strana di questi mesi di angosce, riflessioni, speranze e di reciproco ascolto a distanza (sì, la riscoperta della facoltà di ascoltare – dal canto urbano degli uccelli alle voci di bimbi a Bella Ciao suonata e cantata dai balconi – penso sia una delle cose buone che abbiamo avuto modo di sperimentare).
Che altro abbiamo fatto per tutto questo tempo “on line” (non potendo ‘solcare i mari’, né ‘affaticare la Terra’), se non (dopo i greci, dopo Shakespeare … – “Con ingegno che supera / sempre l’immaginabile”), re-inventare il Coro?
Un rettangolino si illumina in una parte dello schermo, dentro c’è qualcuno che dice “io sono il coro”; un altro rettangolino e un altro che replica, “io sono il coro”, e poi un altro, “io sono il coro”, e un altro e un altro ancora, “io sono il coro”, “io sono il coro” – “io, io, io, noi siamo il coro”. E finalmente… l’Orchestra incomincia a suonare.
Non ve l’aspettavate, eh, il finale così? E allora, via: si dia inizio alle danze!
Opere citate
Lombardo Radice, Giuseppina. 1956. in Sofocle. Le tragedie, Torino: Einaudi.
Sbarbaro, Camillo. 1943. In Sofocle. Antigone, Milano: Bompiani
Cetrangolo, Enzio. 1970. in Il teatro greco. Tutte le tragedie, a cura di C. Diano, Firenze: Sansoni.
Savino, Enzo. 1977. in Sofocle, Edipo re, Edipo a Colono, Antigone, Milano: Garzanti.
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